È un viavai silenzioso nella chiesa di Sant'Antonio Abate, aperta per questa giornata di festa. È vero, le messe non sono più affollate come una volta, ma durante la cerimonia la porta si apre ripetutamente: una persona entra per dire una preghiera e prendere i panini dolci dei ragazzi dell'Enaip, dopo la benedizione (LEGGI QUI).
I tempi e le radici
Sono cambiati i tempi, ma a Busto Arsizio le radici non si dimenticano, anche sottovoce. C'è la devozione, come il richiamo alle vecchie filastrocche in italiano - quando si smarrisce qualcosa, scatta l'Sos "Sant'Antonio dalla barba bianca..." - o in bustocco. Gesti che si compiono e ci riportano indietro, a ciò che avevano tramandato gli avi.
Altri tempi perché - come ha ricordato monsignor Severino Pagani durante la messa - quando la gente lavorava i campi, molti giorni dedicati a santi a cui si era particolarmente devoti cadevano a gennaio o febbraio: quando l'attività si riduceva e queste feste univano le comunità, alimentavano la devozione.
Sant'Antonio Abate poi - ha rammentato ancora il prevosto - era un eremita egiziano, ultracentenario che si ritirò nel deserto ma fu chiamato a incoraggiare e tracciare indicazioni per il concilio di Nicea. Ecco due esempi che ancora oggi ci offre il santo: l'importanza a volte di "andare nel deserto", meditare in questi tempi così incalzati dal rumore e dalla frenesia, e quella di saper dare conforto e aiuto agli altri.
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Dal sacro al profano
Sant'Antoni dul purscell. l'ha suná ul campanell. Ul campanell al s'é sciepá Sant'Antoni a l'é scapá. A l 'é scapá dadré d' una porta, gh'éa lá 'na dona morta. A dona morta l' ha fèi "hí", Sant'Antoni al s'é stremí.
Anche la filastrocca ci racconta qualcosa di noi. Lo ricorda lo storico Luigi Giavini.
«Ho già scritto in "Spira Aprile Maggio nasce" ed è molto vicino al vero, che Sant'Antonio dul purscell era subentrato al grande dio celtico Lug, mantenendone i simboli (Lug figlio della Madre Terra aveva il bastone con la campanella simbolo di feconditá, e accanto il maiale, animale sacro dei Celti. Poi il fuoco - osserva Giavini - Non per niente il 17 gennaio venivano lasciati liberi di circolare perché si diceva che portassero via il male detto "fuoco di Sant 'Antonio". Usanza abolita nel 1548 dal governatore Ferrante Gonzaga. Rimase fino ai nostri giorni invece l' usanza di pregare il nostro Santo protettore dagli incendi facili a propagarsi nelle tessiture intrise di uüa. Cosa si può intuire allora dalla filastrocca citata prima? Che nel travagliato passaggio dal paganesimo al cristianesimo Sant'Antonio fu bersaglio di maldicenze che tenevano a sminuire la grandezza del nostro Santo. Ecco allora che veniva presentato come un debole, un malcapace i cui simboli non erano potenti come quelli del dio Lug (la campanella si rompe, il nostro Santo scappa, si lascia spaventare da una donna morta».
E ancora: «Già era proprio morta la divinità Madre Terra nonostante i tentativi di risorgere con quel "hí". Madre Terra, divinità femminile come la Luna,, l'acqua che dal cristianesimo vennero ridotte a poco più che simboli, se non addirittura demonizzate e ridotte a streghe come ben ci ricorda la nenia natalizia bustocca (non dimenticate le nostre origini liguri, cioè una civiltà matriarcale dove non solo comandavano le donne, ma erano sacre proprio quelle divinità femminili) : piu piu capelètu tüci i donn in dul sachètu, ul sachètu al s'é discüsí, tüci i donn in dul barí. Ul barí a l'é senza fondi, tüci i donn a caal dul mondu e ul mondu a l'é scará, tüci i donn a caragná. Uèh, Uèh, Uèh. Era bellissimo cantarla davanti al presepe a mezzanotte, sempre intonato da una donna :la nonna o la mamma. Struggente memoria millenaria... Ma gli uomini che figura fanno? Bellissima ma questa è un'altra storia».
L'appello finale: « Cerchiamo di mantenere le nostre tradizioni. Immagino le vostre donande: perché da noi la Giöbia? Perché la millenaria tradizione della Veroncora? Perché... Ne ho già scritto tante volte... Assa! Alégher!».