Busto Arsizio - 18 agosto 2024, 09:20

L'INTERVISTA. Daniele Belosio, una vita per la fotografia: «La sua arte non sparirà mai, neanche con il digitale. Il bianco e nero? È pelle d'oca»

La passiona da sempre, la prima macchina regalata dalla futura moglie, gli scatti portati da Fusetti e poi la cronaca che chiama ma lascia cicatrici. Una foto con il cellulare? «Se è un momento irripetibile, cerco il coraggio di farla così»

Sacconago vista da viale Sicilia e Daniele Belosio

Sacconago vista da viale Sicilia e Daniele Belosio

Il primo servizio, le vasche di decantazione dell’inceneritore. Scatti, quelli di Daniele Belosio, che convinsero l’allora caporedattore della Prealpina Gianni Fusetti.

«Era il novembre 1988, da lì è iniziata l’avventura» sorride il fotografo. Anzi, ancor prima, e da più punti di vista. Negli anni Ottanta aveva lavorato come poligrafico nel Giornale nuovo di Indro Montanelli. La passione per la fotografia ha sempre fatto parte della sua personalità, ma galeotto fu anche un dono speciale della sua futura moglie, Piera.

Ripercorriamo allora con Daniele Belosio, classe 1950, la lunga strada affrontata con la macchina fotografica (con la Prealpina appunto e poi la Provincia): deposta solo simbolicamente con la pensione a fine 2017, ma in realtà sempre con lui, anzi più che mai. E se molte cose sono cambiate - la fotografia viene purtroppo spesso mortificata nell’era dei social - Belosio è convinto che quella bellezza non sparirà mai.

Lei ha iniziato da poligrafico nel Giornale con Montanelli. Ma già sentiva l’amore per la fotografia: come è diventato un mestiere?

Nella redazione della Prealpina a Busto Arsizio portai a Gianni Fusetti un servizio sulle vasche di decantazione dell’Accam. Era una cosa di attualità, avevo fatto un giro da quelle parti. Gli scatti gli erano piaciuti e da lì è iniziata l’avventura. Coprivo la zona di Busto, ma anche Legnano, l’Alto Milanese… Ogni genere di cronaca, nera, bianca, tutti i tipi di notizie.

Quando i fotografi, anche più dei cronisti, venivano tirati giù dal letto a ogni ora della notte per la nera…

Ci chiamavano a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo. Ma era impegnativo anche perché la cronaca nera ti rimane dentro e lascia qualche cicatrice. Io mi ricordo ogni servizio che ho fatto e ho pagato un bello scotto. Ti lasciano il segno. Tu in quel momento puoi sembrare insensibile, ma lo assorbi… e dopo ti torna fuori. Un giorno ho avuto la sensazione di DOVER smettere di fare questo lavoro per un particolare. Mi sono commosso a un funerale e ho capito che non potevo più farlo… Ne avrò fotografati forse migliaia purtroppo, funerali di persone morte in maniera cruenta. La commozione, la gestisci. Devi essere lucido. Non puoi distrarti. Negli anni di pensione ho fatto qualche scatto al cimitero di Busto Arsizio e mi sono ritrovato di fronte anche a quelle persone che avevo conosciuto purtroppo nel giorno peggiore. Le avevo davanti e mi ricordavo per filo e per segno quello che era successo.

Allora voltiamo delicatamente pagina e parliamo di cose belle, di come nasce per lei una foto.

La foto devi prima comporla nella tua testa. Poi la vedi sul vetro smerigliato della macchina e infine stampata.

Può deludere, quando la si vede stampata?

No, se fai questo lavoro prima, è scontato che sia quello che volevi. Devo poi dire che il Covid ha segnato profondamente il modo di vedere le cose ed era maturata una sensibilità interiore diversa. Ti sentivi di vedere anche quelle piccole sfumature di cui non ti accorgevi solitamente.  Purtroppo non l’ho più ritrovata quando hanno riaperto le città.

Quante macchine ha cambiato?

Non sono riuscito a definire il conto esatto. Una trentina, credo. La prima me la regalò mia moglie da fidanzati: era una Canon Ftb. Io ero già appassionato, ma quello è stato il momento di scelta.

La fotografia sta attraversando un periodo difficile, nell’era del digitale e dei social. Lo potremmo definire mortificante?

Assolutamente sì. Io consiglierei - prima di scattare - quanto meno di capire come si compone un’immagine, come si espone, cosa non fare, cosa fare, anche perché non dev’essere una cosa casuale ma ragionata. O non si va da nessuna parte. È solo mortificante vedere certe cose.

Oggi il clic significa più voglia di dimostrare di esserci, non cogliere l’anima dell’immagine?

I ragazzi cresciuti con il digitale tornavano dai servizi con 300 foto. Ma adesso delle altre 299 che ce ne facciamo? Ti serve un’immagine irripetibile, bellissima, assoluta.

Non un’immagine, ma l’immagine?

Esatto. Non una serie. Un’immagine sola, ma ti deve entrare nella testa.  

C’è una foto che le spiace non aver fatto?

Ci dovrei pensare…

Ne posso citare una io? Perché c’ero…

Qual era?

Quando ci mandarono insieme all’ospedale di Busto perché era ricoverato Indro Montanelli per un intervento di oculistica. Ci buttarono fuori… ma Montanelli sentì il rumore e da vero giornalista ordinò di farci entrare perché dovevamo fare il nostro lavoro e ci parlò. Sulla foto, però, disse di no.

Il direttore era così. Era abbastanza schivo.  

Un futuro ci sarà ancora per la fotografia?

Assolutamente sì. Siamo a un bivio. L’era digitale ci porta da una parte, la Fotografia dall’altra. La prima sarà sempre più di massa, ma la Fotografia di nicchia non sparirà mai.

Confessi: ha scattato delle foto col cellulare? Magari era un momento irripetibile e lei era senza macchina…

Allora se vedo un’immagine, con il cellulare non la scatto. Torno con la macchina. Ma se capisco che era irripetibile allora posso avere il coraggio di usare il cellulare (ride).

Daniele, la fotografia è un’arte. Suo figlio Davide ha seguito la sua vocazione in un’altra arte, la musica: c’è un filo che le lega?

Lui suona il violino. Quale affinità? A volte io guardo le fotografie con la musica sotto, mi concentro di più e vedo ulteriori dettagli.

Un’ultima curiosità: il bianco e nero, quell’inizio obbligato sui giornali… e oggi che cos’è per lei?

È pelle d’oca. Una visione unica della tua anima.

Marilena Lualdi

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