Varese dalla vetrina - 23 luglio 2024, 14:06

VARESE DALLA VETRINA/24. La Brasiliana e quel profumo di caffè che cambia il tempo e l'umore dei varesini

Antonella Zambelli gestisce il negozio di via Manzoni aperto nel 1974, ma la storia del caffè preferito da varesini e turisti inizia nel 1932. La macchinetta a petrolio e la tostatura a carbone e legna durante la guerra e il “tàches al tram” di papà Clemente diventato luogo comune: «Nasce verde e muore nero, ne vendiamo dai 420 ai 430 al giorno. Una volta, quando Varese era già viva alle 6.30, la nostra caffetteria faceva da piccola piazza. Temo che con me finirà “La Brasiliana” dopo tre generazioni, ma se qualcuno si facesse avanti gli lascerei tutto come è adesso. Bastano passione e volontà»

Antonella Zambelli e "La Brasiliana", istituzione del caffè per ogni autentico varesino

Antonella Zambelli e "La Brasiliana", istituzione del caffè per ogni autentico varesino

I vecchi varesini lo dicevano sempre, «quando si sente il profumo di caffè, vuol dire che cambia il tempo», e puntualmente veniva a piovere, perché l’atmosfera bassa non consentiva agli aromi di disperdersi verso l’alto. Era il segnale che “La Brasiliana” stava tostando, e i composti volatili del caffè si spandevano da via Manzoni fino a via Vittorio Veneto, facendo venir voglia di entrare subito nel locale di Clemente Zambelli a sorbire un espresso come si deve. Il segnatempo funziona sempre, perché la figlia di Clemente, Antonella, tiene ancora salde le redini di un negozio che è da sempre un punto di ritrovo, e la formidabile macchina di ghisa della ditta Trabattoni di Lecco torrefà che è un piacere, disperdendo un profumo che è in assoluto tra i più evocativi.

La storia del caffè preferito da varesini e turisti incomincia nel 1932, quando Carlo Zambelli, rimasto vedovo, da Abbiategrasso si sposta a Varese con i due figli Clemente e Mario, e decide di importare dal Brasile i preziosi chicchi, incominciando l’attività di torrefazione in via Ugo Foscolo.

«Mio papà allora aveva sedici anni, ma già aiutava il nonno, e nel 1948, i due fratelli si divisero i compiti: Mario andò a Milano a occuparsi di importare il caffè crudo, e Clemente a Varese della tostatura e della vendita, insieme a mia mamma Franca e naturalmente a Carlo», racconta Antonella Zambelli, sempre presente in negozio assieme ai quattro dipendenti.

«Durante la guerra mancava l’elettricità e servire il caffè al banco era difficoltoso, ma mio nonno materno Bosoni, disegnatore meccanico alla Macchi, inventò una macchinetta a petrolio che funzionava a meraviglia. Tostare invece non era un problema, perché la macchina era alimentata a carbone e legna. Allora via Ugo Foscolo era vivissima, c’erano panettiere e macellaio, e quest’ultimo chiese a mio padre come diavolo avesse fatto senza elettricità a continuare a servire caffè e lui, che amava gli scherzi, gli rispose: «Me sont tacàa al tram», facendo intendere di aver fatto un collegamento alla rete tramviaria che allora traversava la città, grazie a uno speciale permesso del comune. Il macellaio ci credette, e andò diritto in comune, sperando di poter avere elettricità a buon mercato. La cosa finì addirittura sul giornale, e da allora il “tàches al tram” è diventato un detto comune».

Nel 1974, Clemente Zambelli trasferì l’attività in via Manzoni, facendo scrivere a mano, sul muro dietro le macchine per gli espressi: «O café è a vitamina do espirito», con tanto di bandierine del Brasile a fare da contorno.

«Piano piano si decise di tenere in negozio altri prodotti, del resto la licenza parla di “droghe e coloniali”, e oggi vendiamo anche molte qualità di tè, cioccolato, infusi, oltre a servire anche la crema di caffè, il caffè freddo e al ginseng e naturalmente cappuccini», sottolinea Antonella, che ha un passato di danzatrice.

«Il nostro caffè arriva a Trieste dove viene selezionato con appositi crivelli che ne differenziano la dimensione dei chicchi e insaccato, nasce verde e muore nero, come si usa dire. Proviene da Brasile, Colombia, Guatemala e Nicaragua, ma anche dall’India, con la varietà “Plantation tipo A”, di fatto un’“Arabica”, nonché l’“India Plantation Boba Buda”, dolcissimo, e il “Tanzania”, proveniente (e qui ai boomers viene in mente il grande Edoardo Vianello con i suoi “Watussi”, ndr.) dalle falde del Kilimangiaro. Queste due qualità pregiate non vengono messe nelle miscele, ma vendute singolarmente. Poi c’è la “Robusta”, dal nome della pianta, che viene da Congo e Camerun, e dà un caffè cremoso che taglia l’acidità tipica invece dell’“Arabica”. Il decaffeinato arriva già pronto da Trieste e la caffeina è tolta grazie a potentissimi getti d’acqua, a differenza del metodo più comune che prevede l’uso di solventi, volatilizzati poi dalla tostatura ma non del tutto, così i residui possono dare fastidio a chi soffre di gastrite. Il mio caffè preferito è il “Moka Portorico”, il nome glielo aveva dato papà».

A “La Brasiliana” si fanno in media dai 420 ai 430 caffè al giorno, e la clientela è di ogni età, molti sono i clienti che acquistano la speciale “Super miscela” composta in via Manzoni, e servita anche al banco, 100 per 100 “Arabica”, con “Santos Colombia”, “Guatemala”, “Nicaragua” e “India Plantation”.

“La Brasiliana” è un porto di mare, ma Antonella Zambelli ricorda alcuni clienti speciali: «Veniva Mimma, la moglie di Piero Chiara, a comperare il caffè, poi diversi pittori, da Innocente Salvini a Vito Addabbo, portavano i loro quadri a papà, e facevano lunghe chiacchierate. Oggi passa spesso Aldo Ossola, ma purtroppo si è convertito al caffè d’orzo. Una volta Varese era viva, e la nostra caffetteria faceva da piccola piazza. Ricordo che aprivamo alla 6,30 e i venditori del mercato di piazza della Repubblica passavano per il primo caffè della giornata, poi c’era il conciliabolo di Salviato e Lozza, titolari rispettivamente delle ditte di scope e di petroli. Ora apriamo alle 7, ma a quell’ora c’è il deserto».

Antonella Zambelli non ha figli o successori che potrebbero proseguire la sua attività: «Temo che con me finirà “La Brasiliana”, dopo tre generazioni, ma spero che qualcuno si faccia avanti per rilevare il negozio, gli lascerei tutto come è adesso, il lavoro lo si impara in fretta se si hanno passione e volontà».

Mentre parliamo, Stefano Margaritola, l’addetto alla torrefazione, riempie la macchina con 30 chilogrammi di caffè verde per volta e dà inizio al processo di tostatura, della durata di una ventina di minuti. E qui altro ricordo d’infanzia, il “Moliendo café” inciso da Mina nel 1961, ma scritto dal venezuelano Hugo Blanco tre anni prima, un tormentone da juke box che parlava delle pene d’amore di un macinatore di caffè.

«Il caffè arriva qui in sacchi di juta, il peso va dai 60 ai 70 chili e viene tostato a 170 gradi per circa venti minuti. Prima gli “Arabica”, quando la macchina non è ancora caldissima, poi le altre qualità. Tutto viene fatto manualmente e occorre fare attenzione che il tono dei chicchi alla fine della tostatura sia uniforme, evitando così il cosiddetto “caffè arlecchinato” a macchioline», spiega Stefano Margaritola.

È l’occhio, insomma, a fare il colore del caffè.

«Grazie a una sorta di siringa estraibile, posso controllare il grado di torrefazione e il colore della miscela, e toglierla in tempo per poi farla raffreddare per una decina di minuti, altrimenti, come del resto il riso, continuerebbe a cuocere. In estate, con l’alta temperatura ambientale, occorre levare il caffè qualche attimo prima del solito». Ecco che l’aroma si sparge per il negozio e per la strada e, manco a dirlo, son previsti temporali.

Un “deca” al banco e una chiacchiera con Ledi Cattaneo, colei che ogni giorno fa felici oltre 400 persone con la “vitamina dello spirito”: «Prima del covid avevamo due macchine per l’espresso e cinque baristi, c’era la coda fino a fuori del negozio per bere il caffè, a ogni ora del giorno. Poi è cambiato tutto, in centro i negozi si svuotano e c’è poco transito, la Varese di un tempo è scomparsa per sempre».

Mario Chiodetti

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