Torna l'appuntamento con la rubrica dedicata alla storia, agli aneddoti, alle leggende e al patrimonio storico e culturale di Varese e del Varesotto in collaborazione con l'associazione La Varese Nascosta. Ogni sabato pubblichiamo un contributo per conoscere meglio il territorio che ci circonda.
Oggi raccontiamo la storia di un miracolo avvenuto all'ospedale di Circolo il 10 aprile del 1964.
SUOR GENNY E IL MIRACOLO ALL'OSPEDALE DEL CIRCOLO
«Entrai nell’ospedale di Circolo di Varese con urgenza la mattina del 10 aprile 1964 alle ore 7,30, perché stavo malissimo, avevo una forte emorragia e diversi gravi sintomi...», Suor Genny parla della sua guarigione, a 35 anni, per intercessione della Serva di Dio madre Gesuina Seghezzi.
Ecco la sua testimonianza all'inchiesta diocesana della diocesi di Bergamo.
«Era successo che, la settimana prima, durante gli esercizi spirituali a cui partecipai dall’1 all’8 aprile 1964, mi sentivo stanchissima, perdevo sangue al mento perché i vasi capillari erano deboli. Feci presente la mia situazione all’infermiera della casa generalizia, ma quella sottovalutò la situazione, benché mia mamma, venuta a trovarmi a Bergamo alla fine del corso, l’8 aprile, fosse molto preoccupata della mia salute, perché mi conosceva. Il 9 aprile tornai a Viggiù, mi trascinai con fatica nel lavoro fino alle 23, poi andai a riposo ma stetti male tutta notte.
Al mattino mi fecero visitare dal dottor Ghiringhelli, che veniva quella mattina per i ragazzi del collegio, ed egli mi fece ricoverare urgentemente nel reparto di Medicina, in una stanza privata perché il caso era grave. Il Primario, prof. Barbieri, disse alla superiora, suor Riccarda Seghezzi, di avvisare immediatamente i parenti, infatti fu mandato un telegramma a Portogruaro e mia madre, che stava facendo il bucato, lasciò da solo mio padre, quasi cieco, e partì col rapido Trieste-Milano, perché già dal mio incontro a Bergamo presentiva quello che stava succedendo.
Arrivò a sera alle 20 e i portieri non volevano lasciarla entrare; lo stesso prof. Barbieri, ateo ma molto umano, l’accompagnò nella mia stanza. Rimase nella mia stanza giorno e notte, dormendo su una poltrona, fino al giorno dopo la mia guarigione, avvenuta il 10 maggio. Nessuno riuscì a convincerla ad andare in un letto a riposarsi, perché voleva essere lei a chiudermi gli occhi. Era tanto grave la mia situazione che i miei familiari e le suore ebbero il permesso di entrata a qualunque ora, scritto dal Primario stesso. Oltre alla mamma, mi vegliava ogni notte una suora insegnante, ora secolarizzata, suor Rosamaria Pagnoncelli. Nei primi giorni della mia degenza, i professori non si pronunciavano: pensavano ad una leucemia fulminante, mi facevano continue trasfusioni che non trattenevo.
Io stavo sempre immobile, senza forze, non avevo neppure la forza di aprir bocca. Mi praticavano trasfusioni e iniezioni a non finire, usando aghi fissi, perché la mia pelle diventava nera anche solo a toccarla. I sintomi di malattia grave aumentavano sempre di più, anziché diminuire: perdevo sangue persino dagli occhi e dalle gengive. Continuavano a farmi esami del sangue per verificare il numero delle piastrine, che venivano sempre meno, fino ad essere quasi assenti, per cui il sangue non coagulava. La dottoressa del reparto analisi disse in mia presenza che non ero una ammalata da lasciare sola la notte.
Gli esami del sangue venivano portati a Pavia nei laboratori specializzati, che diagnosticarono il morbo di Verlof, primo caso in Europa. Si doveva perciò procedere alla asportazione della milza. Ne avrei avuto per cinque o sei mesi, a detta dei dottori. Il caso interessava molti medici della Lombardia e dell’Emilia Romagna, che venivano a vedermi, sette o otto ad ogni visita, più volte al giorno. Madre Oliva Vigori, nostra suora infermiera nella clinica di Faenza, venne a conoscenza della mia situazione dai medici del posto, tanto si era diffusa la notizia in campo medico.
Visto che le mie condizioni peggioravano sempre di più, madre Riccarda mi incaricò di dire al professor Barbieri che noi chiedevamo a Dio il miracolo della mia guarigione tramite madre Gesuina Seghezzi, morta l’anno prima in concetto di santità, il 30 marzo 1963. Io, che portavo la foto e la reliquia della madre (un pezzettino di stoffa) riferii questo al professor Barbieri, mostrandogli anche la foto. Egli mi ascoltò con paterna bontà, prese l’immagine, la lesse poi mi disse: «Il miracolo te lo farà il professor Fumagalli asportandoti la milza». E io di rimando: «No, no! Lo vogliamo dalla madre vicaria!». Allora aggiunse: «Pregala».
Nei giorni seguenti venne il professor Fumagalli, primario di chirurgia, il quale mi disse: «Devi venire sotto le mie mani». Io gli ripetei che non volevo sottopormi all’intervento, ma volevo la guarigione da madre vicaria. All’emorragia capillare subentrò l’emorragia interna che mi portò allo stremo. Per quindici giorni consecutivi ero sempre in un lago di sangue. In uno di questi giorni il professor Barbieri confidò alla signora, che era stata messa in camera con me, che temeva per me una emorragia cerebrale e un attacco di leucemia, che sarebbero stati fatali, perché i globuli rossi si erano molto abbassati e i bianchi aumentati moltissimo. Fu in uno di quei giorni, in cui non vedevo nessun miglioramento, che ebbi una crisi di fiducia in madre Gesuina e feci togliere da mia mamma la foto di madre vicaria dal posto in cui la tenevo sempre, cioè in corrispondenza della milza.
Verso sera venne la mia superiora, suor Riccarda Seghezzi, alla quale confidai quello che avevo fatto; ella mi guardò con materno affetto e sorridendo mi disse: «È tutta lì la sua fede? Rimetta subito l’immagine, non pensi di stare a letto tanto e molto meno di morire, perché deve venire al mare» ed io subito ubbidii, senza troppa convinzione. Le cure proseguivano, sempre nuove. Il professore diceva a mio fratello: «Ho cambiato cura, ma non riesco a metterle la pezza», cioè a bloccare l’emorragia. Il 5 maggio mi fecero l’esame dello sterno. Più tardi, il professore venne per la visita e mi disse: «Hai un midollo così sano e bello da non credere e produce un’infinità di piastrine, ma prima di entrare in vena vengono tutte distrutte». Vedendo che non riusciva a fermare l’emorragia, il professore mi mandò il prof. Giudici, e non so che cosa abbia diagnosticato. So appena che alcuni giorni dopo, quando mi vide guarita, disse: «Il giorno sette sono ritornato accanto alla sua camera e non sono entrato perché credevo fosse morta».
Il 9 maggio 1964 il professor Barbieri chiese al dottor Ferrari, uno dell’équipe insieme a Fontana e Diez, quante piastrine avessi e quello rispose: «Solo alcune». Erano però cessate le emorragie dai capillari. Forse perché mi facevano meno trasfusioni, le emorragie in quei due giorni (8-9 maggio) erano diminuite, per cui mia madre, ormai stanca e scoraggiata e anche perché pensava a mio padre a casa solo e bisognoso di lei, mi fece chiedere al medico quanto tempo sarei rimasta ancora a letto. Egli rispose: «Ancora quattro o cinque settimane», perciò telefonò a casa che si fermava ancora.
Così si arrivò alla notte tra il 10 e l’11 maggio. Stavo come sempre coricata nel letto, senza forze, quando verso le 23, nel dormiveglia, mi sono sentita una mano passare sulle coperte, dalle spalle ai piedi, come quando si rassetta il copriletto. Quando quel tocco è arrivato in fondo al letto, io ho aperto gli occhi di scatto e con mia meraviglia ho visto madre Gesuina ai piedi del letto, dai fianchi in su; era vestita di nero, con il velo di lana della vecchia divisa, che scendeva sulle spalle; aveva le mani raccolte, le dita intrecciate come sempre. Mi guardava con il suo materno dolce sorriso, poi subito disparve. Ho acceso la luce del comodino e sono rimasta in silenzio a sentire la vita nuova che avevo dentro di me. Mia mamma riposava sulla poltrona e suor Rosamaria non mi vegliava quella notte. Mi pare di averle detto subito che mi sentivo guarita e che avevo visto madre Gesuina. Mi sono addormentata verso la mezzanotte ed ho dormito fino al mattino. Quando suor Antida, caposala del reparto, è entrata in camera portando il cero per accompagnare il cappellano che distribuiva la comunione, come ogni mattina, le ho detto subito: «Sono guarita!» e lei ha semplicemente sorriso contenta, poi ha seguito il cappellano.
In mattinata, quando sono venuti i medici per la visita, si sono meravigliati di trovarmi seduta nel letto. Io non ho detto niente, perché avevo paura di essere derisa, anche se ero certa di quello che mi era accaduto. Mi hanno fatto il prelievo per verificare le piastrine, come aveva prescritto il professore il giorno precedente. Io mi sentivo sicura che le piastrine c’erano. Infatti non mi sbagliai. Alle 10 venne il confessore ordinario della comunità di Viggiù, don Alessandro Ravasi, il quale pensava di trovarmi morta; quando mi vide seduta sul letto con le gambe penzoloni, richiuse la porta per andare a chiamare l’infermiera, perché mi pensava in delirio, ma io gridai: «Don Alessandro, sono guarita, sto bene».
È venuto verso di me ed è rimasto a parlare, contento della mia guarigione, ma non ricordo con precisione se gli abbia parlato della visione che avevo avuto. Verso le 13.30 venne il professor Barbieri tutto raggiante con la sua équipe, mi mise la mano vicino alla milza, dove tenevo l’immagine e la reliquia di madre Gesuina, e mi disse: «La cara madre Gesuina ti ha fatto il miracolo. Hai tutte le piastrine, anche di più. Telefona alla tua superiora. Il miracolo c’è e io te lo dichiaro». Come dire la mia gioia e quella della mia mamma, dopo tanti giorni di angoscia, specie per la mia mamma, che da un mese circa si trovava al mio capezzale? Per me ero ben lieta di volarmene al cielo, avendo appena fatto gli esercizi spirituali. Quel giorno, 11 maggio, mi alzai e rimasi in piedi per ben tre ore, meravigliando tutti i medici, perché non accusavo alcun capogiro scendendo dal letto: mi sentivo come una persona in perfetta salute.
Lo stesso giorno, in camera, sentii il dottor Fontana discutere col dottor Ferrari sul numero delle piastrine trovate: secondo i loro esami erano 200.000, secondo i risultati del laboratorio erano 182.000. Non so ancora spiegarmi come mai sul cartella clinica risultino 128.000: forse c’è stato un scambio di cifra. Il giorno 12 il dottor Fontana, quando venne per la visita del mattino, mi disse: «La Suora non la visitiamo, perché è più sana di noi». Non mi lasciarono uscire subito dall’ospedale, come era mio desiderio, perché il professor Barbieri, contento della mia guarigione ma non del tutto persuaso, voleva tenermi sotto osservazione. Sospesero ogni terapia, lasciando solo quella del ginecologo. Mi ordinò inoltre del Vetercortene, ma per ordine della mia superiora cessai ogni cura.
Per non dire bugie ai medici quando avrebbero domandato se prendevo la medicina, mi limitai a prenderne una piccolissima dose, tanto che in 11 giorni ne presi mg 80. Mi dimisero dall’ospedale il 21 maggio, dopo tre prelievi, dai quali risultarono sempre più che normali le piastrine: ne avevo ormai 290.000. Ripresi subito il mio ufficio in cucina, senza fatica. Per concludere, voglio sottolineare un fatto che mi ha molto deluso. Il giorno della mia guarigione, il prof. Barbieri aveva detto a me e mia mamma, di fronte alla sua équipe, che avrebbe scritto una dichiarazione sul miracolo avvenuto. Anche nei giorni seguenti la guarigione, lo sentivo dire: «Adesso andiamo dalla miracolata». Non so se lo dicesse con convinzione o per ironia, essendo egli ateo. Questo mi fece molto soffrire. Alcuni giorni dopo la mia uscita dall’ospedale, venni in treno con la mia superiora a Bergamo perché la superiora generale, madre Dositea Bottani, voleva vedermi.
Ricordo che era il giorno in cui il Parlamento stava facendo la votazione per il Presidente della repubblica, l’on. Leone. La madre generale, Dositea Bottani, mi ha salutato, poi mi ha fatto parlare sul caso della mia guarigione.
Quando le dissi, rammaricata, che il prof. Barbieri non voleva rilasciare la dichiarazione, mi disse: «Balorda, perché appena hai avuto la visione non ti sei alzata e non sei corsa a gridare per i corridoi che eri guarita?».
Nell’Istituto ‘Piccoli di Padre Beccaro’ a Viggiù venne, una domenica di giugno, mons. Giangrisostomo Luigi Marinoni, vescovo emerito di Asmara, confessore e grande amico di madre Gesuina Seghezzi. Mi chiamò in salottino, mi fece molte domande, poi chiamò madre Riccarda e le disse di farsi rilasciare una fotocopia della cartella medica e di tutta la documentazione necessaria, senza badare a spese. Ciò che appunto abbiamo fatto».