Varese - 15 agosto 2023, 08:45

IL RACCONTO DI FERRAGOSTO. L'uomo delle cinque e quelle voci uscite dalla torrida estate datata 1952

Amori, litigi, speranze, sogni e delitti. Mario Chiodetti dipinge con le parole uno spaccato dell'Italia di 70 anni fa visto, anzi ascoltato, dalle orecchie di un osservatore molto particolare...

La prima cabina telefonia d'Italia in piazza San Babila (archivio storico Telecom Italia)

La prima cabina telefonia d'Italia in piazza San Babila (archivio storico Telecom Italia)

Sento le voci. Migliaia di voci, ne colgo ogni sfumatura, le riconosco a distanza di mesi, perché ognuna porta con sé la storia di una vita, il suo distillato. Le voci non tacciono mai, il giorno, la notte, a volte si sovrappongono, una più vicina, squillante, l’altra remota, come un sussurro. Ma le riconosco lo stesso, non posso farne a meno. Rimango in attesa, aspetto una voce non ancora ascoltata e la fisso per sempre, archiviando il suo modulare, magari una lieve inflessione dialettale, oppure l’estraneità al luogo, ascolto il desiderio e l’angoscia, la speranza e il dolore, la minaccia, il riso incontrollato, il silenzio dell’addio. 

Lui di solito viene verso le cinque, due, tre pomeriggi la settimana, prima di parlare si soffia il naso e poi inspira forte, come per prepararsi a una battaglia. Il respiro è veloce, e il primo «ciao» è quasi singhiozzato, tradisce una lunga attesa e l’ansia di chi non ha certezze, o forse compie gesti azzardati, furtivi. Non ho mai ascoltato pronunciare il suo nome.

Ha una voce violacea -mi piace abbinare i toni uditi a quelli dei colori- che fugge a volte verso l’acuto e poi si abbassa, di colpo, quando chiede a Cora se lo ama ancora. Lei ha risposte veloci, secche, non riesco a sentire ogni parola, ma capisco la sua grande difficoltà. Deve avere paura, e ogni volta lui schiarisce la voce per rassicurarla, le promette un viaggio insieme, glielo ha detto già due volte, ma la donna non deve essere convinta, oppure non vuole impegnarsi, o non può. 

L’uomo delle cinque insiste ma non forza il tono, il suo saluto è secco, non rimanda a un domani che forse non ci sarà, la chiusa è il solito, banale, «ti bacio», poi il fiato buttato fuori di colpo, prima di allontanarsi.

Maura invece -conosco il suo nome per averlo sentito pronunciare da un’amica- ha una voce di un azzurro limpido, che vira al turchese, ama vestirsi alla moda, parla continuamente di pois, gonne a palloncino, guanti di capretto e cappellini di paglia per l’estate, che pare siano l’ultimo grido di questo 1952. Deve lavorare in una boutique qui a Milano, poco lontano dal mio punto di ascolto a San Babila, ha 22 anni, gliel’ho sentito dire l’altra mattina, quando ha parlato a lungo con Cinzia, che però possiede una vocina gialla un po’ asmatica, ed è difficile cogliere il loro dialogo. Maura ama la modernità e il poter parlare così, in intimità -lo fa la sera, all’uscita dal lavoro- la rende euforica, e a volte mi sento in imbarazzo ad ascoltare le sue confessioni laiche sull’amore della vita, un uomo sposato, forse il titolare della boutique -sulla sua identità è molto riservata- che non sa della passione furente di lei. Ha deciso di dichiararsi, ieri sera lo gridava quasi, ma oggi non è passata e sono già le otto e mezza, forse Cinzia l’ha convinta a fare il contrario e hanno litigato. 

L’estate è un periodo di voci stanche, piatte, assorbo la loro malinconia, comprendo il desiderio di evasione dalla calura di Ferragosto, dalla città semi deserta. C’è chi ha la moglie al mare e a ora fissa cerca la sua voce tra un bagno di sole e l’altro, chi deve partire e vuole scovare un meccanico perché la cinghia di trasmissione della 600 si è rotta, chi conferma l’appuntamento alla Terrazza Martini per parlare d’affari ma vorrebbe essere altrove.

Ieri è successa una cosa sospetta: verso le undici di sera è arrivato un uomo -l’ho percepito grazie a una scatarrata da fumatore- che ha sostato pochi secondi senza parlare. Aspettava. Poi di colpo la sua voce grigio scuro, plumbea e senza sfumature, si è fatta sentire con un breve messaggio: «Tutto a posto, il colpo è per stanotte». Non ho udito repliche, ma non posso chiamare la polizia, mi pagano soltanto per ascoltare. 

«Ciao nonno come ‘tai? La mamma dice che veniamo a trovarti domani se il papà ha voglia di guidare». Ecco Carletto, la sua è una voce color panna, acerba come una pesca di giugno, sua madre invece ne possiede una da doppiatrice, fluida come una cascata di seta carminiosa, che tocca ogni nota della sensualità, anche quando parla con suo padre della pigrizia del marito, «che quando deve portarci da te a Laveno sembra debba partire per Parigi. Abbiamo una Giulia, mica una Topolino!». Borghesia medio-alta, ma Laura, come l’ha chiamata papà, di certo è stata un’attrice o una cantante lirica -la sua pronuncia è perfetta, senza accento- prima di sposarsi e pensare alla famiglia. Il mio orecchio non mi tradisce mai. 

Ma ecco Tano che parla con sua «matri», non capisco molto, il siciliano è stretto, ma la sua è una voce rosso Valentino, racconta che gli manca il paese e al cantiere lavora 15 ore al giorno per «mandare i piccioli in famiglia». È un po’ aggressivo, ma a un tratto si addolcisce, e la voce diventa pastosa -somiglia un poco a quella di un attore, mi pare Foà- quando chiede notizie di Concetta, la sua «zita», che presto vuole portare a Milano per metter su casa. È di Polizzi Generosa, una sera parlava con un amico della Targa Florio, con i bolidi che sfrecciano davanti a casa sua, «da noi c’è un giovane di Palermo, un certo Vaccarella, che va davvero forte, prima o poi correrà per la Ferrari». E poi, strano per un siciliano, tifa Milan e non Juventus. Ci tiene molto a farlo sapere, anche ai parenti, ha visto San Siro ed è rimasto «alloccùtu».

Anche io però posso dire di aver avuto una grande emozione, e pur non potendomi muovere ho sognato poi di essere là, alla Scala, magari in loggione, ad aspettare che lei uscisse e incominciasse a cantare. È successo qualche mese fa, era mattino, saranno state le 11, quando sento un accento veronese, al quale risponde una voce particolare con dentro un arcobaleno di colori e una lievissima screziatura veneta. 

Oddio, non sarà lei? È lei, la Maria, e dal rumore della carta e dei nastri deve essere appena uscita dalla Biki, parla fitto con l’uomo, suo marito Meneghini, di colpo si ferma e, dopo aver frugato nella borsetta, si mette a chiacchierare con una certa Bruna, che suppongo sia la governante, perché la prega di prepararle il necessaire per un breve viaggio, mi par di capire a Londra. 

Ora parla quasi cantilenando, la sua voce è da tranquilla signora borghese, piuttosto uniforme, sui toni medi, ma in me ormai c’è un grande sconvolgimento e mi perdo gli ultimi frammenti di conversazione. La Maria riprende il filo con il Titta Meneghini, poi si allontana, e nell’aria rimangono il rumore dei suoi tacchi e una scia di Chanel n. 5, o forse è Hammam Bouquet di Penhaligon’s, tra i preferiti della Divina, mi intendo poco di profumi. Ma quella voce, quella voce rimarrà in me per sempre e mi compenserà delle parole stridule, dei toni troppo accesi, dei sussurri incomprensibili che mi tocca ascoltare ogni giorno per contratto. Anche a una cabina telefonica, ogni tanto, è concesso di sognare. 

La cabina telefonica “parlante” del nostro racconto è stata la prima a essere installata in Italia, il 10 febbraio 1952, in piazza San Babila a Milano. È di questi giorni la decisione da parte di Tim di smantellare definitivamente le 15mila cabine rimaste nel nostro Paese, mettendo fine a un pezzo di storia della comunicazione. Ci sembrava doveroso ricordare questa sorta di confessionale laico, nel quale tutti noi siamo entrati per donare a qualcuno, nel bene o nel male, un frammento della nostra vita. 

Mario Chiodetti

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