I contadini e il destino: se Lorenzo Crespi a 16 anni è riuscito a tornare a casa dopo essere stato prelevato dai tedeschi e aver combattuto tra le montagne, sente di doverlo a loro.
Oggi si avvicina al traguardo dei 95 anni, che taglierà il prossimo agosto assieme alla sua famiglia in provincia di Novara. Ripensando a quei mesi interminabili in cui fu strappato da Busto Arsizio e dai suoi cari, rivive i momenti drammatici, perché diverse volte la morte l’ha guardato negli occhi. Ma anche l’umanità che ha incontrato e che l’ha salvato.
Come se fossero 79 anni fa
Lorenzo è un signore dalla memoria nitida, che legge almeno quattro giornali al giorno, e non ha mai parlato volentieri di quanto accadde nel ’43. Una persona riservata, che però oggi accetta di condividere alcuni ricordi. A partire da quel giorno di ottobre, in cui con la bicicletta era corso a vedere una grande attrazione in viale Pirandello: «C’era un avvenimento speciale per noi ragazzi, partii da Sacconago e andai a vedere quest’officina che faceva ingranaggi per le navi. Vidi un palco di legno e tanta gente ad ammirare, ma erano quasi tutti vecchi, donne e bambini. Arrivò un camion tedesco, saltarono giù in sette, otto con le pistole puntate mi chiesero i documenti… Io ero tra i più alti, dimostravo vent’anni anche se ne avevo 16». Lorenzo sente che stanno commentando: è buono per lavorare.
Così lo caricano sul mezzo, dove già c’erano altri due ragazzi e altri ne saliranno. È l’inizio di un incubo. «Ci portarono al campo della Pro Patria, allora in via Valle Olona e lì ci hanno caricati – racconta ancora – per portarci non sapevamo dove».
Uno dei malcapitati capiva il tedesco e intese che sarebbero stati condotti tra Bologna e Imola a realizzare le fortificazioni per bloccare l’avanzata degli Alleati. Senonché si arriva al ponte di barche a Piacenza e piovono le bombe: «Eravamo sette, otto camion, altri se n’erano aggiunti nell’Alto Milanese… I tedeschi sono stati i primi a saltar giù nell’acqua e così abbiamo fatto noi».
Lorenzo si trova sulla riva e con altri riesce ad allontanarsi, raggiungendo il bosco. Si sentono dei cani abbaiare e ci si avvicina alle case: «Sì, io sono vivo grazie ai contadini, a partire da quella prima volta». Sono infatti loro, che si mettono ad aiutare: arrivano con il forcone, spaventati perché è quasi l’una di notte, ma vedendo quei sette ragazzi bagnati come dei pulcini e spaventati, li assistono subito, tra cibo, acqua e abiti. Quindi, si presenta un altro signore che li porta via, in mezzo alle campagne, e spiega loro quale sorte li avrebbe attesi, se la spedizione non fosse stata interrotta.
Quell’uomo già parla loro del Comitato di liberazione e consiglia loro di proseguire verso Sud, visto che stanno risalendo gli Alleati. «Si camminava di notte, non avevamo documenti – dice Lorenzo Crespi – ci hanno portati a Firenze, Pontevecchio, dove un ebanista aveva costruito una specie di cono, di capanna, noi eravamo lì. Siamo rimasti quindici, venti giorni e lì ci hanno spiegati com’era la realtà… stiamo combattendo. Ci hanno armati».
A Lorenzo danno un fucile mitragliatore e una pistola Beretta calibro nove. C’era una missione da compiere, attraversando Pontevecchio di notte, il che era impossibile a causa dei tedeschi e del coprifuoco: «Allora siamo usciti da via dei Serragli e abbiamo fatto un cammino di dieci minuti sulla riva.. eravamo a fine novembre, siamo entrati in acqua… io ero capace di nuotare, tenevo su il mitra. Alcuni non li abbiamo visti più. Appena usciti dall’acqua, c’erano già là i compagni ad aiutarci, con coperte e vestiti. La nebbia ci ha aiutati».
La morte in faccia
Le località si susseguono, lungo un cammino percorso a piedi, da Rifredi in poi, consumandosi la vista perché ci si muoveva appunto nelle ore notturne ed erano esauriti i cerini: «Facevamo parte della divisione Potente». Pontassieve, avanti in altri luoghi dove il gruppo era cresciuto e cercava anche rifornimenti per sopravvivere. Si passa da Vicchio dove resta impressa la statua di Giotto e si arriva a Borgo San Lorenzo.«Lì, ho visto la morte in faccia».C’era una caserma da cui portare via le armi, Lorenzo si mette nell’atrio dello stabile di fronte e poi corre a bussare alla porta: subito da sopra partono gli spari e iniziano i combattimenti.
Aveva paura? «Ero incosciente – risponde – Io portavo però il casco di un tedesco che era morto e mentre attraversavo la strada, mi spararono da dietro… senza il casco, non ci sarei più. Lì ho avuto paura, sì».
Dei compagni di Busto Arsizio – chiamati dagli altri «i milanesi» -, alla fine rimangono in due. Anche se giovanissimo, a Crespi vengono affidate responsabilità: «L’ordine, mi è stato insegnato a casa mia». Nel frattempo, arrivano dal cielo i rifornimenti degli alleati: ogni ben di Dio da mangiare e armi calano sul pianoro. Altre situazioni di pericolo incombono: come quando è seminascosto dentro un cilindro e una pallottola gli fischia vicino. Allora in fuga, con l’altro “milanese”, nei boschi, dopo tre mesi di freddo, rischi pesanti, la lontananza da casa, ancora incontrano i tedeschi e scoppia una bomba a mano: cinque schegge si conficcano nel ginocchio della gamba sinistra.
Più tardi, un russo lo “opererà”: recuperando una forchettina di cui separa le punte legandole poi con un filo. Di anestesia neanche l’ombra: il ragazzo verrà ubriacato di Chianti e grappa, per attenuare la sensazione del dolore. Ventiquattro anni dopo, Lorenzo sentirà gonfiarsi il ginocchio e si scoprirà che c’era appunto una quinta scheggia da levare. Per quella ferita, riceverà in seguito una pensione, 30mila lire e poi 13 euro al mese.
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La guerra è la guerra
Gli attestati dei suoi combattimenti arriveranno negli anni Ottanta: uno – il diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia - porta la firma del presidente Sandro Pertini. Ma intanto Lorenzo e l’altro “milanese” stanno tornando a casa, ci hanno messo un mese e quattro giorni. A piedi, nonostante il dolore, ma quando arriva a Busto – prima tappa a Borsano – quasi non si ricorda della ferita. Ha perso un fratello in guerra, un altro era stato arrestato.
È un ragazzo, è un adulto, Crespi. Gli vengono chiesti dei consigli, degli interventi: come a Legnano, per la Franco Tosi, sarà presente anche quando viene fermata la colonna Monte Rosa.
C’è fretta di vivere, lontano dalla guerra. La famiglia si trasferirà poi a Novara, lui si innamorerà di Caterina e con lei formerà la loro bella famiglia. La campagna non lo attira: «La mia povera mamma lo diceva, io dovevo fare l’ingegnere». Veglierà sul cantiere dell’azienda dove poi lavorerà: lo farà con il figlio, in una roulotte e tra la neve, ma è tutto in discesa rispetto a quell’inverno in guerra.
Già, la guerra. Quando quella in Ucraina scorre sugli schermi della televisione, fa male a quest’uomo: «La guerra è la guerra, nel vero senso della parola. Quando vedo quella gente là...».
Lui ha sempre preferito aiutare: anche con la radio, ha contribuito a salvare la vita di una donna e gli è stato consegnato un diploma di riconoscenza. Nella pace della campagna novarese dove i contadini – sempre loro – svolgono la loro silenziosa attività - Lorenzo sente ancora quella pallottola fischiargli vicino, a volte. Continua a leggere e studiare; beve poco vino, dopo quell’anestesia atipica a cui lo sottoposero 70 anni fa. C’è un altro cibo che non lo sazia mai, però: è la curiosità.