Il primo ricordo che ho di Gian Pietro Rossi è di una telefonata in redazione, alla Prealpina. Entrando vidi un gruppetto di colleghi attorno al caporedattore Gianni Fusetti, che mi guardavano come se fossi in procinto di entrare nella savana.
C’era un leone che stava ruggendo per un mio pezzo, che gli aveva creato grattacapi in maggioranza. Volarono i mesi e piombò addosso a Busto Tangentopoli. Quei giorni il Comune sembrava vuoto: l’avvocato Vittorio Celiento, che avrebbe difeso e contribuito a far assolvere il sindaco (e prima senatore) era una delle poche voci che attraversava quegli spazi dando certezze.
L’unica foto pubblicata in modo tranchant in prima pagina che io ricordi è quella di Rossi, con le manette. Che fissava i fotografi, non sottraendosi affatto.
Io, che avevo avuto appunto le mie battaglie con il leone come accade nelle cronache quando tali sono, ne rimasi sconvolta. Feci una solenne stupidata, perché un giornalista non dovrebbe neanche pensarci: avevo poco più di vent’anni e scorza zero. Con un amico, mandai un telegramma.
Perché Rossi non poteva non sapere, sembrava la tesi del momento.
Perché Rossi il leone che sognava, progettava, costruiva una Busto del futuro, non poteva abbassarsi alla miseria delle mazzette, pensavo.
Non ero l’unica.
In quel tempo Marco Sartori, deputato della Lega, fu tra quelli che andarono a visitare Rossi in carcere. Mi sembra anche Francesco Speroni, mi correggerà se male ricordo.
Ma ricordo la risposta che Rossi mi mandò. E mi ricordo il suo sguardo al primo Te Deum da allora: era stata pubblicata ancora la sua foto di parecchi mesi prima per ricordare la scossa di Tangentopoli a fine anno. Ancora esposto a tutti e tutto. Cronista senza scorza, non condividevo già.
Ma quando lo vidi in basilica, lui mi si avvicinò e mi chiese, prima ancora con gli occhi: perché.
Non avevo risposte, solo la stessa domanda.
Per dodici anni ha dovuto combattere per riavere la sua vita.
Politico, industriale, marito, padre, nonno. Uomo prima di tutto.
Ce l’ha fatta, grazie a chi ha creduto in lui e con lui si è battuto. Grazie al giudice Giuseppe Battarino e alla sua sentenza magistrale.
Assolto. E allora a rituffarsi nella politica che tanto amava, perché prima di riavere la sua immagine immacolata mai si era mosso. E questo già suona strano in un mondo come quello di oggi, dove questo comportamento è l’eccezione, non la regola.
Ma Rossi per me divenne altro. Un leone da ascoltare, passando da Roma nei giorni del sequestro Moro, che lui visse accanto a Fanfani, arrivando alla Busto che stava fiorendo a livello industriale e non solo.
Ma sempre e soprattutto un uomo. Un papà che mi accoglieva in casa con la sua Renata, un leone che diventava tigrotto andando allo stadio Speroni.
Sindaco (non l’ho mai chiamato senatore ma mi veniva da chiamarlo così, come per ridargli nel mio piccolo ciò che gli avevano tolto) fa freddo, non venga a vedere la Pro Patria.
Ma è un momento importante, non si può mancare. E tanto freddo non fa.
Andava a tutti i funerali degli amici, anche dei conoscenti, finché ha potuto. Un giorno - freddo - lo incontrai in basilica e scoprii che era venuto a piedi e così voleva tornare. Lo sgridai e lo accompagnai, ma per raggiungere la mia auto in realtà c’era un lungo tratto a piedi. Lo tenevo a braccetto, ma sentivo che era lui a farlo, perché mi indicava quel luogo, quello scorcio e lo riempiva di volti.
E poi i caffè vicino a casa, con i progetti che non volevano rallentare.
Bisogna sognare, ruggiva il vecchio leone.
Ho tanti ricordi, troppe mancanze, ma quello che mi stringe il cuore è un momento di pochi mesi fa. Quando la cronista tornò senza scorza davanti al leone.
Alla morte di Vittorio Celiento, lo chiamai con maggiore delicatezza possibile per chiedergli un ricordo dell’amico. Mi accorsi subito dalla voce che era ignaro e finsi di avere sotto una chiamata per riagganciare. Chiamai una persona a lui cara e gli dissi: non è giusto che glielo dica io.
Anche se io cronista con lui ho sempre stentato ad essere in questi ultimi anni, non come quando lo facevo arrabbiare nella Prima Repubblica.
Ma di quello chi si ricorda più... stringo forte il suo biglietto.
“Credo nella Giustizia e penso di poter dimostrare la mia estraneità ai fatti contestatimi”. 12 aprile 1993
Buon viaggio, Gian Pietro.