A corredo di questo articolo non troverete alcuna fotografia dello straordinario pianista che martedì sera ha incantato il pubblico della Basilica nel quarto appuntamento della Stagione Musicale Comunale. Già, perché Sergei Babayan non ama essere ripreso mentre suona, è stato tassativo con gli organizzatori, niente immagini ma “soltanto” le migliaia di note del monumentale Concerto per pianoforte e orchestra n.3 in re minore op.30 di Sergej Rachmaninov, l’incubo di David Helfgott nel film Shine, e tra i vertici assoluti di difficoltà esecutiva.
Il Rach3, come viene familiarmente chiamato, è una sorta di K2 della musica, una montagna da scalare, una sfida che l’uomo compie con sé stesso, e la maestria di Babayan ci ha fatto percorrere una sorta di ascesa verso l’alto, un cammino difficile e aspro, che la musica di Rachmaninov sottolinea passo dopo passo. Il primo movimento narra le difficoltà dell’arrampicata, c’è il vento, ci sono le nuvole, forse una bufera, ma l’uomo ha dentro di sé un motivo popolare che lo lega indissolubilmente alle proprie radici, dandogli la forza di proseguire. Riflette sulla sua vita, nella lunga cadenza del pianoforte, va avanti e arriva alla vetta, quindi, nell’Intermezzo, c’è la gioia e il riposo, il dialogo serrato con la natura e il mistero dell’esistenza, poi si riprende il cammino, la fatica del vivere si fa sentire, ma la vittoria è a portata di mano ed esplode nel finale, in cui Rachmaninov arriva a citare sé stesso, con una cellula tematica del suo secondo concerto per pianoforte e orchestra.
Sergei Babayan, armeno-americano, pianista non divo, eccelso didatta, che nell’aspetto ricorda vagamente un altro gigante della tastiera, Radu Lupu, ha dato una lezione di stile e di tecnica, suscitando indescrivibili colori, scalando la montagna del Rach3 senza ossigeno, quasi con nonchalance e dialogando a perfezione con l’Orchestra Sinfonica del Conservatorio di Milano, magnificamente diretta, come al solito, da Pietro Mianiti. Babayan, maestro tra gli altri del fenomeno Daniil Trifonov, è un interprete di altissimo livello, capace di accendere emozioni al calor bianco e alternarle ad attimi di meditazione poetica, annullando il tempo e lo spazio.
Inutile dire che Mianiti e i suoi ragazzi, ormai arrivati a un alto grado di maturità, lo hanno assecondato nella scalata verso l’assoluto, dimostrando poi tutto il loro valore in un altro simbolo della lotta contro le avversità del destino, la Sinfonia n. 5 in mi minore di Čajkovskij, composta nel 1888 in soli cinque mesi. Mianiti, cui va il merito di aver plasmato un’orchestra di straordinaria unità, solida e oliata come un perfetto meccanismo, si avvale di strumentisti ventenni di grande valore e sensibilità - il primo corno, di 23 anni, suonava per la prima volta in orchestra e sembrava un veterano - che potranno crescere ancora sotto la sua sapiente guida. E l’amore e la dedizione che il maestro ci mette, è totalmente ricambiata dai ragazzi, che al termine del tormentato cammino dell’uomo espresso da Čajkovskij nello svolgersi della Sinfonia, lo hanno acclamato con gridi e applausi, come si fa con un genitore o con uno zio saggio.