Se la Pallacanestro Varese, chi ne fa parte, chi le gira intorno, ha un luogo che a tutti gli effetti può chiamare casa, il merito è anche suo.
Del suo sorriso, che accoglie chiunque, indistintamente: è un biglietto da visita, una cifra stilistica, un passpartout che apre ogni cuore, con semplicità. Delle sue premure, che nascono da un’attenzione fuori dal comune a quei piccoli particolari che fanno la differenza: bastano un paio di pranzi e lui si ricorda il tuo nome e i tuoi gusti, facendoti sentire considerato e ben voluto. Della sua cucina (ma nel caso si specie lo zampino è più di Rosana, la moglie, regina incontrastata dei fornelli): semplice, sana, buona. E non c’è niente di meglio che prendere una persona per la gola per vederla tornare…
Oggi Varese dalla Vetrina è andata a trovare Elio Pescarino, il volto principale di quella squadra che gestisce il bar-ristorante del Campus, uno degli ombelichi del mondo dello sport (e non solo) varesino. Qui si allena e lavora il più importante sodalizio cestistico cittadino, seguito dalle sue composite giovanili. Qui ci sono un centro medico e un poliambulatorio di avanguardia diventati un punto di riferimento per la città. Qui, fino a due anni fa, c’era anche una palestra, apprezzata e frequentata.
Un porto di mare, insomma, per addetti ai lavori, ragazzi e ragazzini, frotte di genitori, giocatori e appassionati.
In luoghi del genere il bar diventa il minimo comun denominatore che ha il "compito" di saldare insieme ogni tassello: un impresa non facile che per Elio è diventata vita quotidiana a partire dal settembre del 2006. Quando dici Campus dici famiglia Bulgheroni, da Toto a Edo: loro hanno avuto l’idea, loro l’hanno portata avanti. Elio faceva già parte della “famiglia”, da gestore di un bar di loro proprietà in via Peschiera, quando è arrivata la proposta: «Conoscevo benissimo il Campus - racconta - un po’ perché seguo il basket da sempre, un po’ perché portavo qui mio figlio ai corsi di nuoto. Quando mi hanno offerto la gestione del bar ho detto subito sì, è una prospettiva che mi ha affascinato molto».
Alla base un rapporto di fiducia reciproca che in ogni progetto imprenditoriale è la conditio sine qua non del successo: «Lavorare per la famiglia Bulgheroni è sempre stato un piacere. Toto è una persona d’altri tempi, i figli altrettanto. Per me è come essere in famiglia, c’è grande empatia e, lo dico con il cuore, loro mi hanno sempre sostenuto, anche nei momenti difficili».
Sono passati più di 18 anni e paiono volati. La “squadra” dietro al bancone ha sempre avuto i suoi capisaldi: oltre a Elio e Rosana, ecco Serena, la gentilezza e la bravura fatta a cameriera, e Manuel, fedele scudiero. L’idea non è mai cambiata, almeno per quanto riguarda il cibo: «Una cucina sana, il più possibile fresca e con pochi grassi, l’alimentazione ideale per gli sportivi. Con il tempo ci siamo un po’ evoluti, ma quell’impronta è rimasta». Nel menu del ristorante - che cambia ogni giorno - girano 40-50 piatti, ruotati in base alla stagionalità: si può scegliere tra un elenco di primi, di secondi e di piatti unici. L’equilibro è il punto di partenza, il gusto arriva subito dopo: una manna per chi ogni giorno si siede a questi tavolini e ci arriva dopo aver faticato e non poco.
E allora arriviamo al biancorosso, il colore di fondo, oggi come ieri: «Siamo tornati a essere la vera casa della Pallacanestro Varese- dice Elio orgoglioso - Prima squadra, settore giovanile, minibasket: ora ci sono tutti. Una certa quotidianità però è sempre esistita, in un modo o nell’altro: i giocatori da qui sono passati quasi ogni anno, apprezzando l’idea che la società potesse avere una facility di questo tipo. Soprattutto per gli americani è considerato un valore aggiunto».
Si apre il libro dei ricordi, dei rapporti umani rimasti incastonati nell’anima: «Tra i tanti, uno che porto nel cuore è Yakhouba Diawara - confida il gestore - Persona fantastica, umanamente ineccepibile, bravo anche con i giovani, che difendeva e coccolava. Il suo rapporto con Varese è ancora oggi granitico. E poi Randolph Childress, il “professore”, un uomo d’oro: quando veniva a prendere il caffè, lo offriva a chiunque si trovasse con lui al bancone, anche se non lo conosceva».
Dai giocatori agli allenatori: «Carlo Recalcati rimane il mio preferito: un autentico signore, di un’educazione squisita. Ma non è l’unico che ho apprezzato: ho avuto buonissimi rapporti anche Frank Vitucci, anche se è stato qui poco, Stefano Pillastrini, una bravissima persona, con Magnano, simpaticissimo, e con Attilio Caja. Herman Mandole non fa eccezione: è bravo ed educato. Mi è dispiaciuto molto quando è stato fischiato a Masnago, penso che invece gli vada riconosciuta una gran voglia di lavorare e di fare bene, fin da inizio anno. Lui e il suo sorriso sono parte di noi».
Ospitare, praticamente quasi tutti i giorni («gli americani si fermano sempre, gli italiani spesso») i giocatori significa, da una parte, avere una grande responsabilità, quale è quella di occuparsi dell’alimentazione di un atleta, dall’altra entrare nella confidenza di gusti e preferenze: «A parte alcuni abbinamenti un po’ strani prediletti dai alcuni ragazzi USA, tipo pollo e pesto insieme, devo dire che tutti alla fine arrivano ad apprezzare la semplice cucina italiana che proponiamo. I ragazzi di quest’anno? Nino (Johnson) non mangia il maiale, Harris (che ora ha salutato la truppa) amava lo spezzatino con i piselli. La guancia di manzo con verze e lenticchie è un altro dei piatti che va per la maggiore. Cosa cucinerei per festeggiare la salvezza? Pensandoci bene, direi la carbonara: i giocatori ne vanno pazzi».
Salvezza a cui Elio, da appassionato che non si perde una partita qual è, crede, così come crede nella gestione Scola: «Partiamo da un presupposto: Varese è il basket. Chiunque ne parla, anche chi viene al palazzetto una volta all’anno. Oggi penso che le idee di Luis abbiano portato entusiasmo e un ricambio generazionale da non sottovalutare, invertendo la tendenza di qualche anno fa: i giovani si riconoscono nel modello proposto dal General…».
A proposito di giovani… Il nostro ne vede parecchi: «I ragazzi di oggi sono cambiati? Sì, come sono cambiati gli adulti. È il mondo che va così. Ritengo però che chi gioca a basket abbia una marcia in più, perché conosce l’educazione e sa cosa significa rispettare le regole. A Varese, poi, i ragazzi sognano ancora di emulare i protagonisti della Serie A, e non parlo solo di un Mannion, ma anche di un Librizzi, ora diventato capitano. Matteo lo conosco da quando aveva 6-7 anni, mi ricordo ancora che un giorno - era piccolo - lo sgridai perché insieme a un suo compagno aveva fatto cadere la Coca Cola sporcando per terra. Gli feci prendere il mocio e pulire tutto. Gli voglio bene, ha una cazzimma enorme».
Cento di questi anni al Campus, allora, caro Elio. E quando ti sarai stufato c’è una bella spiaggia ad aspettarti: «Sì, quella di Rio Das Ostras, in Brasile, dove - quando ero più giovane - ho gestito un chiosco. Amo il Brasile, l’umanità delle persone, sanguigna e passionale. Per me, insieme al Campus, è il luogo che chiamo casa. Quando finirò di lavorare, tornerò là. Come farò senza la Pallacanestro Varese? Semplice, la guarderò su Dazn…».