Opinioni - 19 gennaio 2025, 11:02

Piccolo, grande Leo Siegel: non finisce qui. Ci hai insegnato a essere sbagliati ma veri

Il nostro ricordo di Leo Siegel, giornalista militante in ogni impresa della sua vita: entrò nella redazione sportiva della Padania nel 1997, e fu colpo di fulmine. Gli articoli scritti a mano o dettati al telefono perché le parole uscivano dal cuore, l'anima della Saima che riempiva il palazzo dell'hockey, il Chievo di Delneri e i signori nessuno, i panini con i wurstel alla vecchia Resega di Lugano e una vita in prima linea sulla strada, dove passa le gente. Se c'era una persona da scegliere con cui andare in battaglia senza il rischio di essere traditi, quella era lui

Leo Siegel, scomparso 85 anni dopo una vita di battaglie

Se c'era una persona da scegliere con cui andare in battaglia senza il rischio di essere traditi, quella era Leo Siegel. Fu un colpo di fulmine: entrò nella prima redazione de "La Padania" - tre computer salendo le scale del cortile interno di via Bellerio, in una saletta con Franca Morotti agli spettacoli, Matteo Salvini alla pagina delle lettere e, in mezzo, io allo sport - la prima Padania del 1997, fatta da giornalisti veri chiamati da Gianluca Marchi e Marco Dal Fior in arrivo dalla Notte e dall'Indipendente, ed entrò con un foglio di carta e dei libri sotto il braccio dicendo "Qui c'è l'articolo di hockey scritto a mano, ho già fatto anche le correzioni, e questi sono i miei libri per te".

Da quell'articolo, che avrei dovuto passare in tipografia per essere trascritto ma non resistevo dal divorare e scrivere direttamente in pagina perché la chiamata alle armi di Leo "armata" Siegel, uomo-Saima per eccellenza (la "Saima", per chi non la conosce, è l'anima dell'hockey milanese applicata a una curva e a un popolo), era capace di trasformare ogni parola in una coltellata di passione, ne nacquero altri migliaia, dettati al telefono, perfino scritti su tovaglioli di carta ai banchetti del partito quando gli arrivava la notizia bomba: non ebbe eguali quello che capitò con il suo amico Luigi Delneri, che commentava per noi senza peli sulla lingua la giornata del calcio ogni lunedì da allenatore e simbolo di quel Chievo originale di cui Leo si innamorò perché ovunque ci fosse un Davide e un Golia, ecco che lui (noi) sceglieva (sceglievamo) Davide. Gigi leggeva l'articolo a Leo che lo dettava in diretta a me: la dettatura della dettatura. Noi eravamo così, lacrime e sangue, pane e salame, soprattutto salame. 

Ma Leo per me e per noi era molto di più: una trasferta semieroica come quella in Ungheria in pullman insieme a Luigi Bolognini, ora a Repubblica, e Alberto Ambrogi, oggi alla Rai, per seguire le finali di Coppa dei Vipers dell'hockey guidati da coach Insam e dal presidente Alvise di Canossa, la prima partita nel tempio della vecchia Resega di Lugano dopo abbuffate di wurstel e crauti (mai conosciuto nessun altro come Leo capace mangiarsi di tutto e farlo così in fretta), il viaggio verso Ausonia-Padania di calcio a Benevento - sempre in pullman, perché la fatica e le notti insonni non sono mai pesate per chi come Leo credeva in ogni virgola di ciò che faceva - e prese di posizione incendiarie, capaci di provocare tumulti, nemici e amici per la pelle, in un rapporto umano tra noi costruito su simbiosi - uno era il braccio, l'altro la mente, o viceversa - militanza e sfide al limite dell'impervio.

Quando Gigi Moncalvo divenne direttore e mi presentò Alberto Ballarin, papà di Elisabetta (e un po' anche mio) e, come Leo ma diverso in tutto da Leo, protagonista con i suoi racconti romanzati e travolgenti delle pagine di sport de La Padania, lo spazio per il Chievo venne naturalmente a ridursi a favore di Milan e Inter, soprattutto Inter visto che in pochi sapevano pungere Moratti come faceva Ballarin. Moncalvo, capace di gettarsi nel fuoco e fare la guerra al mondo, vincendola, con un piccolo pugno di giornalisti dalla sua parte (raccolse al telefono, direttore-dimafonista se era il caso, il mio reportage di due pagine sul funerale di Pantani, dettato in cima a un albero di Cesenatico per fuggire dalla vendetta della folla che accusava i giornalisti e, in particolare, Cannavò di avere tradito il Pirata), un giorno ordinò che il Chievo scomparisse dalle pagine del giornale, schiacciato dagli articoli torrenziali di Ballarin sull'Inter. Dissi di sì, feci il contrario e venni "fucilato" finché lo stesso Ballarin, arrivando scalzo in redazione con un panino al salame tra i denti, mi prese e mi trascinò davanti a Moncalvo per salvare Chievo, Inter e sottoscritto, che ottenne anche l'autista per seguire due Giri d'Italia, un autista di un'umiltà straordinaria, lo stesso di Gian Paolo Ormezzano, l'indimenticabile Riccardo. 

Già, il Chievo, così come i pattinatori Fusar Poli e Margaglio, il Panta seguito da "Pantacunego" quando il veronese vinse un Giro alla Pantani e divenne l'eroe del giornale nel nome del Pirata, Ivan Basso che pagò per tutti a causa delle sacche di sangue di Fuentes ma venne difeso soltanto da pochi, anzi nessuno (noi eravamo nessuno), i Vipers e l'hockey (non ci sarebbe stato, e infatti non c'è più stato, l'Agorà stracolmo e bollente per il ritorno alla vittoria del Milano, con il suo coro lungo un'intera partita, da record del mondo, come scriveva sempre Leo) e il basket rappresentavano l'anima "anti" di chi ci leggeva. L'anima di chi vive sulla strada, dove passa le gente. L'anima del piccolo, grande Leo. 

Quando il cursore si ferma, le parole svaniscono, il foglio finisce eppure avremmo ancora bisogno di scrivere tante altre cose di Leo, non resta altro che un'ultima frase, qualcosa che gli sarebbe piaciuto e che lo accompagnerà, ora che ci ha strappato un pezzetto di cuore portandoselo via con lui.

Maledetto amico, dobbiamo dirtelo: non saremmo quelli che siamo, sbagliati ma veri, senza averti incontrato.  

Andrea Confalonieri