Sono sparite. Piano piano, ad una ad una, senza fare rumore, ci hanno lasciato orfani dei loro colori, dell’apparente disordine di tanta carta racchiusa in pochi metri quadrati, delle abitudini e delle raccomandazioni accorate per la messa da parte di questo o quel fascicolo di enciclopedia, del numero imperdibile di una rivista, di un annuncio di lavoro che forse poteva cambiare la vita.
Le edicole non ci sono più, nella nostra come in ogni altra città, trasformate in negozietti di fiori, magari di libri usati, con ancora le pubblicità dei giornali locali che occhieggiano dalle pareti, non sono più l’appuntamento del mattino assieme al caffè caldo e al treno acchiappato al volo, con il quotidiano sotto il braccio.
E poi le chiacchiere con l’edicolante, sulla politica, sul tempo, sui costumi, i pettegolezzi che solo lì avevano il sapore della cronaca, con la vita che passava veloce tra un settimanale e un mensile, le figurine dei calciatori e la copia fresca di stampa del giornale dei cavalli che arrivava con le Nord nel tardo pomeriggio, prima della riunione serale delle Bettole.
Perché parlare di questo a Natale? Perché l’edicola era uno dei simboli della socialità, del condividere opinioni, del litigare per un articolo di fondo, del darsi appuntamento lì davanti, dello sbirciare quale rivista acquistasse il vicino di casa un po’ strano, dello spasimare nell’attesa di vedere pubblicato l’articolo scritto di getto il giorno prima. Un confessionale laico, una piccola piazza di carta che nascondeva sacrifici e levatacce, inverni gelidi ed estati torride, ma gli edicolanti, chissà perché, erano quasi sempre di buonumore e sorridenti, con una memoria ferrea allenata dalle tante richieste di “metter da parte” questo o quello.
La socialità, appunto, contenuta nel messaggio che il Natale cristiano porta da sempre, e oggi sta per sfuggirci di mano, sostituita dal singolo individuo, solo e combattente contro sé stesso e il mondo, imprigionato nei social dove scatena le sue frustrazioni di solitario infelice, che teme il confronto diretto, il contatto umano, le mani sporche, a volte anche solo uno sguardo o un abbraccio.
La poesia del Natale si sa, si è persa da tempo, a ottobre i social ci devastano già con migliaia di proposte di acquisti per le feste, aumenta la frenesia per l’inutile, il regalo fatto per forza, tutto luccica e si illumina come un sepolcro imbiancato ma alla fine rimaniamo soli con noi stessi, con centinaia di amici virtuali ma nessuno vero, e la frustrazione aumenta trasformandosi in rabbia.
Il covid, le guerre, la drammatica crisi climatica che ci ha privati della neve, naturale complemento natalizio alle nostre latitudini, la tecnologia disumanizzante ci allontanano dalla semplicità, dai valori veri e universali del calore umano e della condivisione, dalla natura che molto ha ancora da insegnare a chi la sa osservare. Torniamo a guardarci negli occhi, a litigare magari per poi fare pace, a rinunciare al superfluo, a lasciare nel cassetto il cellulare riprendendoci la nostra libertà di pensiero e di azione, conversando con chi ci sta di fronte senza messaggini, cuoricini e fiorellini, riappropriamoci del nostro corpo, costretto ormai a ritmi non più compatibili con la nostra biologia, osserviamo le stelle, camminiamo nel bosco, corriamo per i prati, sfariniamo la terra con le mani, leggiamo i poeti.
Il Natale è un inno alla vita nuova, alla fantasia e all’amore, dimentichiamo i condizionamenti, i falsi obblighi, le minacce ormai vicine del transumanesimo, che vorrebbe l’uomo sempre più debitore alla tecnologia per un folle dominio del mondo da parte di pochi esaltati. Invertiamo la tendenza, diventiamo scoiattolo, primula o nota musicale. Facciamolo, almeno per un giorno.