Varese dalla vetrina - 25 novembre 2024, 15:18

Mario, "il Costa" e un sogno a spicchi. Vent'anni di Triple, il negozio del basket nella città del basket

VARESE DALLA VETRINA/34 - Era il 2004: «Perché a Varese non c'è un posto dove prendere le scarpe da gioco? A furia di sentircelo chiedere, ci abbiamo pensato noi...». È iniziata così la storia che oggi riviviamo con una chiacchierata fatta di risate e aneddoti, alla ricerca dell'amore vero per la pallacanestro: «Quando un bambino entra e sgrana gli occhi, non sapendo più dove girarsi tra canotte e scarpe, capiamo che forse abbiamo fatto un buon lavoro davvero...». L'intuizione che nel 2015 fece cambiare idea persino a Nike, le canotte di MJ a Washington andate a ruba in 10 minuti, le scarpe con il tappo di Rolando Howell, gli scherzi di Ebi Ere, le spese pazze di Holland, il "messaggio" per l'amico Menego e una speranza per la Pallacanestro Varese: «Quando getti un seme nel basket, a Varese nascerà sempre un fiore... Guardate Librizzi»

Mario Di Sabato, a destra, e Mauro Costantini

Allora, sfatiamo innanzitutto alcuni miti.

Mario Di Sabato e Mauro Costantino, da qui in poi “Mario” e “il Costa”, non sono sposati tra loro, nonostante le rispettive compagne credano il contrario, vista la quantità di tempo che passano insieme.

Secondo: no, Triple non è di Andrea Meneghin, da qui in poi “il Menego”, nonostante in molti lo abbiano creduto per anni e i due soggetti sopracitati ci abbiano anche «un po’ marciato sopra»: «Te lo giuro, la gente era convinta che noi fossimo solo due “teste di legno”. E siccome il Menego era sempre in negozio, certe persone venivano qui anche solo per vederlo. Comunque non è vero niente, anzi ho un messaggio per lui: “Menego, se leggi questo pezzo, tira fuori i soldi…”».

Terzo: non tutte le domande “scontate” hanno risposte scontate. Da Mario e dal Costa, per esempio, due dei capisaldi di “Varese dalla Vetrina” come “come vedi cambiata Varese?“ e "qual è il più bel complimento che avete ricevuto?” vengono rispediti in tribuna più rapidi di una stoppata di Dikembe Mutombo (pace all’anima sua)… Così: «Ah boh… Da quando abbiamo aperto io a Varese non vado praticamente più…». E così: «I complimenti più belli? Dobbiamo ancora riceverne uno…». Rimessa. 

Inconvenienti del mestiere, peraltro messi in conto. Mario più Costa uguale Triple. E se vai da Triple puoi fare solo tre cose, oltre a perderti tra i richiami degli scaffali: ridi, scherzi e parli di pallacanestro. Non se ne esce. 

Cronaca di un pomeriggio alla ricerca di una storia che tanti conoscono - ma che è sempre bello ricordare, perché parla di amicizia e di vite dedicate alla propria passione - di un basket che forse non esiste più nella realtà, ma continua a respirare profondo nelle anime, e di aneddoti che possano riempire le pagine chiare e le pagine scure di un negozio che non sarà mai come tutti gli altri qui a Varese.

Perché è il negozio del basket. Nella città del basket. 

Vent’anni quest’anno, tondi tondi. Vent’anni da quando questi due sodali della palla a spicchi - un autentico re delle Minors, il Costa, e un playmaker di cazzimma che era riuscito anche ad assaggiare la Serie A di casa sua, Mario - decidono di fare qualcosa di più in nome dello sport della loro vita che giocare gli ultimi scampoli di onorata carriera in quel di Daverio e di santificare ogni post-allenamento con una birra alla Botte: «Il primo Triple lo abbiamo aperto in via Giordani, dove oggi c’è un bar - racconta Mario - Per entrambi era però un secondo lavoro: io allenavo e lavoravo alla Vibram, il Costa faceva il rappresentante per l’azienda di Madrigali, all’epoca proprietario della Virtus Bologna. C’era un “problema” a Varese: nessuno sapeva dove prendere delle scarpe affidabili per giocare. O si andava a Milano, o a Rho, dal mitico Dante Gurioli. Qui niente. E allora a furia di sentircelo chiedere, abbiamo deciso di venderle noi, le scarpe…». 

Quello di via Giordani è un «posticino», un piccolo cabotaggio che dura finché gli occhi dei due si posano su un bello e ampio spazio liberatosi a Masnago, a un tiro di schioppo dalle scuole, dal palazzetto e dal Campus. Parola al Costa: «Quando lo abbiamo visto ci si sono illuminati gli occhi. Mario intanto voleva cambiare, mentre Madrigali nel frattempo era fallito portandosi con sé non solo la Virtus, ma anche la sua azienda e il mio lavoro. Ci siamo detti: perché non proviamo a fare il salto?».

Le vendite danno ragione ai due e l’entusiasmo funziona da carburante. All’inizio, in mezzo a scarpe, canotte, pantaloncini e palloni, si trova anche materiale da tennis, da running, danza e nuoto, ma dura poco: «Con i centri commerciali che vendevano gli stessi prodotti, la nostra diventava una guerra fra poveri. E poi noi, per tutti, eravamo i baskettari, non altro. Nel 2015 scegliamo pertanto di ripartire da capo e di ritornare esclusivamente specialisti del basket. Nike credeva in noi, tanto da averci invitato a una rassegna in Olanda come unico negozio italiano del genere, e quindi facemmo loro una proposta: un piano di ristrutturazione e di aperture in varie “basket cities” italiane. All’inizio non erano d’accordo, perché il loro obiettivo era puntare sulle “key cities”, ovvero sui mercati più grandi come Milano, ma riuscimmo a convincerli partendo da un'incontestabile verità: le città del basket, in Italia, sono quelle medio-piccole».

Insieme a Varese e Legnano (nata nel frattempo), Triple diventa a questo punto di casa anche a Reggio Emilia, Pesaro e Trieste, altri piccoli ombelichi del mondo della pallacanestro: «Varese però è prima senza dubbio e con distacco, per il radicamento e la passione che ha: quando un bambino nasce nella Città Giardino la palla la prende in mano, mica la calcia. E in ogni famiglia trovi almeno un componente che ha giocato a basket».

A proposito di “bambini”, ce ne sono di due tipi: quelli che quando entrano da Triple puntano dritti il mirino verso le canotte NBA e quelli - magari un po’ cresciuti, magari a dirla tutta già sui quaranta - che rimangono come inebetiti a guardare la parete di fianco all’ingresso, dove appese ci sono le maglie della Serie A. «La canotta che va di più? Oggi come oggi ti diremmo LeMelo Ball e Ja Morant: sono i giocatori più “social” e i giovani li seguono e li preferiscono anche ai grandi idoli, come uno Steph Curry. Del passato, invece, vanno ancora tantissimo le maglie di Vince Carter e Allen Iverson, mentre vent’anni fa la faceva già da padrone LeBron James e c’era chi non voleva nessun altro se non Michael Jordan: ricordo che un giorno trovammo da Champion un bancale pieno di maglie di MJ dei Washington Wizards, una rarità; le acquistammo tutte e poi le rivendemmo praticamente in dieci minuti».

A beneficio dei cresciutelli, come chi scrive, andiamo all’altra parete: la 11 del Menego è lì al centro, così come la 7 di Mrsic (gialloblù, fatta apposta per le final four di Coppa Italia 1999) e la 5 di Gianluca Basile ai tempi del Barcellona. Ma ci sono anche le "vesti" di Polonara, Diawara, Kukoc (Chicago? No, Treviso…), De Pol, Farebello, Ebi Ere, persino Derek Hamilton (ve lo ricordate?): «Il bello di questa parete è che sono i giocatori stessi a portarci le loro maglie. Di “Kuba” Diawara ne avremo almeno sei, Achille (Polonara) ce ne ha date diverse, Chicca Macchi ci ha dato la sua quando si è accorta della mancanza…».

Abbiamo aperto il capitolo dei giocatori, quindi mettetevi comodi: «Da Triple sono venuti anche i nostri idoli di quando eravamo piccoli, come Corny Thompson, Bob Morse e Arijan Komazec, che ogni volta che torna a Varese passa di qui accompagnato dal grande Sandro Galleani. L’anno degli Indimenticabili veniva tutta la squadra: alle 12 si presentava Ebi Ere, che faceva il cinema con i ragazzini delle medie rubando loro le cartelle e nascondendole; alle 12.30 ecco Polonara, e si andava a mangiare con lui. Quindi Andrea De Nicolao, che oggi ci chiede ancora di mandargli le scarpe ovunque giochi, e Mike Green».

Ma non solo: «Anche Aleksa Avramovic era di casa, così come Nicola Mei e Aubrey Coleman, che ci ha chiesto le nostre scarpe pure dalla Turchia». E nell’elenco non stiamo citando gli amici di una vita - come appunto il Menego o Cecco Vescovi - e nemmeno quegli “italiani” che poi erano il vero collegamento tra Triple e tutti coloro che giungevano nella Città Giardino per giocare a basket: «Oggi è diverso, proprio perché non ci sono più i Galanda o i De Pol, tanto per citarne due, che restavano a Varese anni, prendevano tutti gli americani e gli slavi che capitavano e li portavano in giro. Non solo da noi, anche alla Botte, al L'uvarara, in centro: è così che lo straniero diventava parte davvero di una comunità. Nelle ultime Pallacanestro Varese non accade più così di frequente: se vediamo qualcuno dobbiamo ringraziare Max (Ferraiuolo), che è sempre super... Quest'anno abbiamo accolto Justin Gray, insieme al figlio, Alviti e Abdel Fall».

Gli aneddoti, come si può immaginare, si sprecano. E dovete prenderla con lo scrivente se è rimasto da Triple solo un’ora e non può riportarli tutti. Tra i più gustosi, la storiella su Delonte Holland finisce dritta sul podio: «Quando è tornato a Varese, nella stagione 2007/2008, quella della retrocessione, è arrivato senza niente. E allora compariva qui tutti i giorni e tutti i giorni comprava maglietta, pantaloncini e calze, poi andava ad allenarsi. Non lavava la roba, probabilmente la buttava o la regalava, fatto sta che era sempre qui. Non sappiamo nemmeno quanti soldi abbia speso…».

Un sorriso su Rolando Howell, ovunque egli sia: «Aveva comprato delle scarpe, ma giocando sentiva male e dava la colpa a quelle… “Ma che scarpe mi hanno venduto quelli di Triple?” si lamentava con Sandro Galleani… Un giorno il buon Sandro gli chiede di dargliele, le esamina e scopre che dentro c’era il tappo di una birra, non si sa come capitato in quella sede… Ecco perché gli facevano male…». «Il “migliore” però, anche se non ci ricordiamo il nome, è quello che dalle “Kobe 8” aveva tolto l’intersuola, dove risiedeva l’ammortizzazione, e giocava con la soletta e basta… Lo avesse fatto con i mocassini si sarebbe fatto meno male…».

E Charlie Moore? Un carneade, ex playmaker di Pistoia, che l’anno scorso esordì in campionato proprio all’Itelyum Arena: «Si giocava al sabato e a un certo punto del pomeriggio vediamo questo “bambino” (il “nostro”, nonostante abbia tagliato i 26, ha effettivamente dei lineamenti molto molto più giovanili) correre da sotto verso il nostro negozio, entrare con 200 euro in contanti in mano e chiederci in tutta fretta un paio di scarpe. Noi ovviamente non l’avevamo riconosciuto e ci chiedevamo un po’ straniti cosa ci facesse un ragazzino con così tanti soldi… Beh, era semplicemente un professionista che si era dimenticato gli “attrezzi del mestiere” a casa: senza Triple non avrebbe nemmeno potuto scendere in campo… E pensare che fece pure una gran partita contro la Openjobmetis».

L’abbiamo citata, come si può non parlarne? «Rimarremo per sempre tifosi della Pallacanestro Varese, anche se entrambi adesso seguiamo meno, e ci spiace se le cose vanno un po’ male… Cosa ne pensiamo della gestione Scola? C’è un po’ di impersonalità, ma è purtroppo una caratteristica di tutte le gestioni odierne in Italia. È il basket di oggi che è così… Ogni anno ci sono otto giocatori nuovi, come fai a farti degli idoli? Mia figlia che gioca a basket - dice Mario - non ha alcun punto di riferimento nella Pallacanestro Varese, mentre io alla sua età facevo gli striscioni con lo spray e li portavo al palazzetto per osannare Meo Sacchetti. All’epoca ti immedesimavi, ora è più difficile». La speranza tuttavia non muore: «Qui basta sempre pochissimo per riaccendere la fiamma, perché siamo a Varese: da un seme nascerà sempre un fiore nel basket. Guardate quello che è successo dopo la prestazione di Librizzi contro la Virtus: sono andato su Instagram e ci ho messo dieci minuti per trovare una “storia” che non “parlasse” di lui o di Pallacanestro Varese». 

Sirena. Non prima di averci riprovato con la domanda del “complimento più bello”. Perché da Mario e dal Costa la battuta entra facile come due “easy two” del Joker Jokic, ma ogni tanto ci si guarda anche indietro con il cuore felice: «Ma no, dai, scherzi a parte… Per noi il complimento più bello è un bimbo che entra, si guarda in giro con due occhi sgranati e fissa il padre come se non sapesse dove andare, con il desiderio di comprarsi ogni cosa esposta. Lo stesso ci accadeva quando eravamo piccoli. È allora che pensi “abbiamo lavorato bene”…».

Fabio Gandini


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