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La Varese Nascosta | 23 novembre 2024, 07:45

LA VARESE NASCOSTA. Il tesoro introvabile di Cunardo

Sulla cima più alta dei monti che circondano Cunardo, esisteva una volta un imponente castello, i cui ruderi sono tuttora visibili. Una leggenda ne racconta la storia...

LA VARESE NASCOSTA. Il tesoro introvabile di Cunardo

Torna l'appuntamento con la rubrica dedicata alla storia, agli aneddoti, alle leggende e al patrimonio storico e culturale di Varese e del Varesotto in collaborazione con l'associazione La Varese Nascosta. Ogni sabato pubblichiamo un contributo per conoscere meglio il territorio che ci circonda. 

IL TESORO INTROVABILE DI CUNARDO

Sulla cima più alta dei monti che circondano Cunardo, esisteva una volta un imponente castello, i cui ruderi sono tuttora visibili. Quel castello grande com'era doveva essere quasi una fortezza vasta e spaziosa da poter contenere molti armati. Già da tempo il castello non era più proprietà di un nobile castellano, conte o barone che fosse, né vi risiedeva una qualche bionda e gentile castellana che attendesse gli ospiti e li rallegrasse della sua presenza.

Il castello così abbandonato divenne la dimora di briganti dei quali nessuno sapeva precisamente l'origine, da dove provenissero, né tanto meno come avessero fatto ad impadronirsene, facendo del castello un covo di rapinatori senza scrupoli. Quando costoro scendevano a valle riempivano di terrore i valligiani, che scappavano a rinchiudersi nelle loro case cercando di sprangare più forte che potevano porte e finestre.

Così rinchiusa la gente rendeva più facile ai briganti razziare nei campi e nei cortili. Va da sé che si appropriavano di quanto capitava loro sottomano, raccogliendo a poco a poco un tesoro che col passare degli anni si fece sempre più grande, fino a non poter più essere calcolato.

Un fatto singolare per gentaccia del genere: non usavano quasi mai fare violenza alle donne. I valligiani, pur temendo enormemente le razzie di questi briganti, in fondo in fondo gradivano assai questo strano aspetto dei seppur loschi aggressori, ma non tutte le donne erano dello stesso avviso.

Qualcuna di esse sognava di essere rapita, perciò attendeva la calata dei barbari, lieta che fosse spogliata dai pochi gioielli e di servire loro per il trastullo erotico di qualche ora; cosa che in fondo non commuoveva troppo quei briganti di un genere tutto speciale e non certo molto teneri e galanti nel confronto di certe donne.

Durava già da parecchio tempo una tale situazione, quando un giorno arrivarono nella valle degli armati guidati da Ambrogio, quello stesso che poi fu arcivescovo di Milano. Egli era preceduto dalla fama di una grande bontà e di tradizionale comprensione verso i deboli e i peccatori. Scopo di Ambrogio e dei suoi soldati era quello di liberare quei luoghi e quella gente dalle vessazioni a cui erano sottoposte, e naturalmente salvare insieme le anime di quella banda di gentaccia.

Ora fra questi si trovavano molti ariani seguaci di quel grande eresiarca Ario di Alessandria d'Egitto che a suo tempo diede tanto filo da torcere alla chiesa orientale. Quello scisma durò cinque secoli, nel corso dei quali conquistò alcuni paesi barbari; molti aderenti ad esso, capitarono fra noi frammischiati alle bande di dispersi o di disertori dei vari eserciti che allora scorrazzavano per l'Italia.

Tanti di quella ciurmaglia senza legge né fede che si era impossessata del castello sopra Cunardo, apparteneva appunto allo scisma ariano. I guerrieri milanesi, ritenutisi novelli crociati, guidati dall'arcivescovo in persona, faticarono non poco a snidare quegli eretici, ma finalmente vi riuscirono.

A quei tempi i guerrieri, a qualunque religione o setta appartenessero, non erano mai molto teneri coi vinti e diventavano facilmente dei sanguinari uccisori, confortati spesso dall'esempio dei loro capi che non sempre sapevano mantenersi tolleranti e magnanimi. La storia ha molti esempi di grandi uomini e di santi stessi che si lasciarono trasportare dalle loro passioni e dai desideri di vendetta perdendo completamente il senso morale. Così anche Ambrogio non seppe o non volle fermare i suoi uomini che sterminarono specialmente gli ariani.

Ora nella Valcuvia la storia degli ariani e della loro mi sera fine è quasi del tutto dimenticata. Se si pensa qualche volta a loro è per la persuasione, che dura ancora, che gli ariani e i loro compagni avrebbero nascosto un immenso tesoro celato così bene che ancora oggi, dopo parecchi secoli di ricerche, non è stato trovato.

Non lo trovarono i mercenari di Ambrogio i quali, dopo l'eliminazione dei briganti ariani e non ariani, si dettero disperatamente a cercarlo con tutti i mezzi a loro disposizione. Essi rovistarono in ogni stanza del castello senza trovare nulla.

Provarono nei più reconditi e segreti recessi e da ultimo, presi dal sacro fuoco dell'oro, smantellarono persino i muri del maniero. Ma il tesoro rimase introvabile. Cercarono ancora per alcune settimane tutt'intorno e quando furono persuasi della inanità dei loro sforzi, i soldati di Ambrogio, mogi mogi, si ritirarono definitivamente da quei luoghi.

Fu così che negli anni seguenti molta gente si sparse per la valle e sulle erte dei monti, cercando con accanimento, frugando e scavando ogni più riposto angolo, ma del tesoro neppure l'ombra.

Nacquero allora le più ardite supposizioni, le più inverosimili fantasie. Alcuni pensarono che il tesoro di quegli eretici fosse stato lasciato in custodia al Diavolo che cercava furbescamente di tenere lontani il più possibile i cercatori dal luogo dove il tesoro era nascosto.

Si narra che un giorno alcune donne, smessa la ricerca nel vicino bosco, si inginocchiarono per recitare l'Angelus del mezzogiorno, e proprio in quell'istante entro una raggiera di luce comparve un angelo e mostrò loro alcune gioie che sfavillavano più della raggiera stessa, mentre pareva indicare un punto verso il quale si avviò. Appena le donne, in preda alla più viva agitazione, si alzarono per seguirlo, l'angelo e la luce sparirono e tutto tornò come prima. Altri raccontano di aver visto in lontananza dei guerrieri armati di tutto punto dirigersi verso le rovine del castello e sparire non appena si videro scoperti.

Un numero rilevante di altri segni ed apparizioni fantastiche vennero annunciate, ma il tesoro rimase introvabile. Questo faceva sl che le popolazioni fossero spesso in agitazione. A calmare almeno in parte queste apprensioni, qualcuno suggerì di usare le pietre del castello distrutto per fabbricare a Cunardo una bella chiesa. La cosa ebbe il suo benefico effetto, perché se il tesoro non fu mai trovato, una certa calma scese nell'animo degli abitanti che smisero di affannarsi a ricercare. Ma il tesoro resta sempre nella mente di qualcuno, il quale spera un giorno o l'altro di venirne in possesso.

Come si sa, la speranza è sempre l'ultimo miraggio dell'uomo.

Fonte: Rinaldo Corti, Sentimento e Fantasia ( Leggende del Varesotto, Collana scrittori Varesini e Prealpini, Varese, 1974

da La Varese Nascosta

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