«Ci ha sempre creduto, forse più lui delle persone che aveva attorno». Il soggetto è Matteo Librizzi, e le parole sono quelle di Stefano Bizzozi, suo allenatore ai tempi in cui le giovanili della Pallacanestro Varese erano gestite da Academy Varese.
Due stagioni nello staff tecnico della prima squadra (prima come vice di Vitucci negli Indimenticabili, e l’anno successivo con Frates, a cui subentrò come capoallenatore), prima di tre stagioni, dal 2019 al 2022, al lavoro con le giovani promesse dell’Academy.
Una vocazione quella del lavoro con i giovani per coach Stefano Bizzozi, oggi allenatore della Fulgor Fidenza, Serie B Nazionale, dove dopo dieci partite occupa una posizione a metà classifica con sei vittorie. Davvero niente male se si pensa che, oltre a tre senior, la squadra è di fatto un'Under 19: «Abbiamo un pivot di 16 anni e un’ala di 17. Questo è un progetto di settore giovanile, la classifica nemmeno la guardo».
Tra il 2019 e il 2022 la parentesi Academy Varese, togliendosi diverse soddisfazioni, come la vittoria del campionato Under 17 e il torneo LBA, con in squadra Virginio, Zhao, Valdo (oggi a Fidenza con lui) e anche quel Matteo Librizzi che da domenica è sulle pagine dei giornali e dei social a livello nazionale.
Tanti ricordi quelli di coach Bizzozi sul Matteo allora solo giovane promessa. Ma anche una convinzione: quella che sarebbe arrivato dove si trova oggi.
Com’era Matteo a livello caratteriale?
Era già un ragazzo con grande passione e grande volontà che si allenava molto, difficile non allenarsi tanto se pensi di poter essere un giocatore di pallacanestro. Un ragazzo che fondamentalmente ci ha sempre creduto, più lui delle persone attorno. Io con lui avevo una specie di teatrino in cui io gli chiedevo se ci credeva e lui mi diceva ci credo. Poi è arrivato Roijakkers e quando ci incontrammo mi disse "Mi piace quel ragazzo, quanti minuti gioca?", io gli dissi che non giocava mai, e lui lo inserì subito come titolare. È sempre stato un ragazzo che dà tutto.
Immaginava sarebbe potuto arrivare a certi livelli?
Assolutamente sì, io ne ero assolutamente convinto, ne parlavo spesso anche con la società dicendo che avevano un ragazzo che sarebbe potuto diventare davvero bravo. Mi è capitato di allenare ragazzi che erano alti due metri ma anche ragazzi che erano bassi e molto bravi. Avevo portato Marco Spissu con la nazionale Under 15 e ricordo che c’era perplessità per la sua statura, ma per un giocatore è importante scoprire anche la personalità, la volontà, la voglia, e Matteo queste qualità le ha tutte. Gli ho scritto facendogli i complimenti, ma ora la strada è in salita: nessuno lo sottovaluterà più, e da lui ci si aspetta che si confermi. L’attitudine deve diventare il suo marchio di fabbrica.
A livello tecnico, in cosa è migliorato di più dai tempi delle giovanili?
Posso dire che è migliorato al tiro, una cosa che con tanto impegno si migliora costantemente. E poi abbiamo lavorato tanto sull’uso della mano sinistra, una cosa che adesso è molto importante per un playmaker.
Dove può arrivare ora? La Nazionale può essere un obiettivo reale per lui?
Perché no, secondo me lo è. Io glielo auguro tantissimo, per me ogni giocatore deve coltivare il sogno, e io spero che arrivi al livello più alto possibile. Mi aspetto qualsiasi cosa da lui, con quelle qualità fisiche e atletiche in una pallacanestro moderna così veloce e rapida. Lui potrebbe essere un giocatore ideale per tante squadre.
Come si sente un coach quando vede un giocatore allenato da giovane arrivare a certi livelli?
Io sento di essere stato fortunato nella mia carriera. Ho incontrato tanti bravi giocatori che poi hanno raggiunto la Serie A, l’A2 o la B, e questo mi ha creato un certo tipo di mentalità, quella di riconoscere che la vittoria e la sconfitta durano un attimo, nel bene e nel male. Quando poi rincontri i ragazzi che hai allenato capisci che hai creato un certo legame, perché hanno capito che le arrabbiature e la severità sono utilizzate per migliorarli. Vederselo riconosciuto è la cosa più importante per chi allena il settore giovanile: è bello vincere insieme, ma di quello ci si dimentica subito.
È ancora, in qualche modo, legato a Varese?
Sicuramente. Io ho passato due anni molto belli con la Serie A, perché credo che anche nel secondo abbiamo fatto ottimo cose. Così come nei tre anni di settore giovanile, che posso dire abbiamo rilanciato: siamo ripartiti alla grande, e sento che è stato come aver piantato un piccolo seme, e ora abbiamo due realtà importanti... Credo sia stato fatto un ottimo lavoro. Sono legato alle persone con cui ho collaborato e che sono lì ancora adesso, Varese è un mondo di pallacanestro importante, con una certa storia e tradizione: la prima volta che sono entrato nel palazzetto, a vedere gli stendardi mi si è gelato il sangue nelle vene. È un onore aver fatto parte di quel mondo e aver fatto qualcosa. Sono legato e mi sento onorato.