Certe emozioni ti allattano, ti fanno crescere, riscrivono il tuo dna e lo cambiano per sempre. Le vivi, le metabolizzi, poi le nascondi nelle viscere della tua anima, sapendo che con ogni probabilità non le vedrai mai più liberarsi nell’aria e ritornare realtà.
Eravamo dei ragazzini pieni di sogni (a spicchi e non solo), ma anche tanto esposti alle maree e ai capricci della luna quando avere un capitano varesino era la regola in casa Pallacanestro Varese. Per ragioni anagrafiche il vento che cullava i passi della nostra esistenza era lo stesso che poi avrebbe portato Andrea Meneghin a diventare il miglior giocatore d’Europa. A occhi ben aperti stavamo lì, ad ammirare quella parabola: per noi era il Menego, veniva dopo il Cecco, era uno di famiglia, uno da chiamare per nome, un ciottolo della strada di casa, una bandiera.
Già: “Onore ad Andrea, unica nostra bandiera”… Ce lo ricordiamo ancora quello striscione, esposto dai Boys quando il Capitano firmò il rinnovo proprio qualche mese prima di vincere lo Scudetto della Stella. Tutti sapevamo che prima o poi sarebbe comunque partito - il miraggio NBA, quindi Bologna - ma quella firma fu un paracadute che permise a Varese di costruirsi un futuro, anche in sua assenza.
Fu la carezza di un ragazzo alla sua gente e alla sua città, che lo osannarono con un trasporto quasi religioso. Tutti in piedi, sbattezzati dalla gioia e dall’adrenalina, infuocati di ardore, sbalestrati di passione, proprio come oggi, quando un altro varesino, 25 anni dopo, ha scritto a suon di triple una delle vittorie più inaspettate e incredibili della storia del sodalizio cestistico prealpino, suggellando tra l'altro la sua miglior prestazione in carriera.
No, niente scivovinismo, né retorica (un pizzico dai...), né horror novi: è solo che stavolta va bene così. È semplicemente bello e commovente pensare che il primo successo contro una grande avversaria dell’intera era firmata finora da Luis Scola sia arrivato per mano di Matteo Librizzi, un varesino appena nominato capitano.
Perché per sopravvivere, per affrontare il futuro, è ormai davvero necessario guardare ben lontano da un orticello non più produttivo come un tempo, né sul parquet, né fuori: ne siamo consapevoli anche quando critichiamo, anche quando non ci facciamo andare bene ciò che è davvero migliorabile e rifiutiamo ciò che non ci appartiene e non funziona, quindi è inutile; e lo diciamo oggi, con il cuore ribollente di felice incredulità e di speranza, ma lo sosterremo anche domani, quando non ci sarà una poesia come quella contro la Virtus a risuonarci leggera e festosa nelle orecchie.
È che vale la pena, almeno ogni tanto, ricordarsi che Varese è una favola che qualcuno scrive da ottant’anni e che tutto quello che sarà lo è già stato, nel bene e nel male.
Stasera la stirpe si è allungata: stasera un figlio di questa città ha preso in mano il filo del tempo, ci ha messo sopra il suo autografo, e ci ha fatto capire che il fuoco che arde in noi è ancora vivo.
Come è viva questa squadra, ora che quasi, noi per primi, l’avevamo data per morta.