Varese - 08 novembre 2024, 08:20

Fausto Bonoldi, ovvero l'amore più puro per Varese: «Non la lascerei per tutto l'oro del mondo»

Il grande giornalista, oggi narratore della storia della Città Giardino e tra i fautori del gruppo Facebook da 30 mila follower "La Varese Nascosta", si racconta a VareseNoi: «Sono cresciuto alla Prealpina sotto le ali del direttore gentiluomo, Mario Lodi, ma mi prendo il merito di aver scoperto un grande talento, Giancarlo Pigionatti». Il suo sguardo sulla città: «Il mio rifugio rimane piazza del Garibaldino, il quartiere che andrebbe valorizzato meglio Masnago. Il problema dello stadio? Rendere la gestione sostenibile e ritornare ad avere almeno la metà degli spettatori di quel Varese-Torino arbitrato da Lo Bello...»

Fausto Bonoldi con il figlio Federico, innamorati del Varese e di Varese come pochi altri ne esistono (foto Ezio Macchi). Sotto Fausto con Gentile, l'ultimo suo libro "MiVa", in redazione e in campo al Franco Ossola con alcuni grandi giornalisti e colleghi della sua Prealpina

Uno dei decani del giornalismo varesino, Fausto Bonoldi, racconta a VareseNoi la sua vita professionale esattamente divisa in due. Da una parte la lunga fedeltà - durata un'intera carriera - alla Prealpina, e il tardivo ma grande amore per la storia della nostra città, sfociato in 5 libri - tutti pubblicati per l'editore Pietro Macchione - e nel contributo a un gruppo Facebook che oggi è un punto di riferimento per chi è in cerca di curiose raffinatezze sulla Città Giardino.

Com'è nata la tua passione per il giornalismo e quali sono stati i tuoi primi articoli?

È una passione nata dallo sport. Come molti miei colleghi ho cominciato a scrivere trattando di calcio e di pallacanestro. Negli ultimi Anni Settanta, in particolare, seguivo le giovanili del Varese Calcio, dagli allievi alla Primavera, per le pagine della Prealpina curate dal compianto Luigi Mondini. Ho così fatto amicizia con giovanissimi calciatori che poi hanno fatto carriera, come il campione del mondo Claudio Gentile, e come Ernestino Ramella e Vito de Lorentiis, che sento tutt’ora, oltre che con il futuro onorevole Daniele Marantelli, ottimo centrocampista. Nel settore giovanile biancorosso in quegli anni cominciò la sua carriera di allenatore Peo Maroso, quando la prima squadra era diretta da Niels Liedholm.
Agli inizi, quando a noi giovani collaboratori gli articoli erano pagati 10 lire alla riga, mi occupavo anche di cronaca e di cultura e in due/tre anni maturai il diritto di essere iscritto all’Ordine dei giornalisti elenco pubblicisti. Era il 1973 e la tessera verde mi giunse mentre prestavo il servizio militare a Tolmezzo, negli artiglieri alpini della Julia. Congedato, continuai a scrivere di calcio non più giovanile ma del Varese, che militava in serie A o in serie B, per la Prealpina del lunedì oltre che per il Mattino di Napoli. Fu in quel periodo che scoprii il talento giornalistico di un amico. Stavo tornando in auto da una trasferta a Genova con Giacomo Libera e insieme ascoltavamo le analisi critiche di Giancarlo Pigionatti. "Pigio – gli dissi – perché queste cose non le scrivi?". E fu così che Pigionatti, diplomato all’Isef e apprezzato insegnante di educazione fisica, si dedicò all’attività di giornalista.

Raccontaci la tua pluriennale esperienza alla Prealpina nei vari ruoli che hai ricoperto.

La Prealpina degli Anni Settanta era davvero una grande famiglia. Sotto le ali del direttore gentiluomo Mario Lodi siamo cresciuti noi boomer, tutti nati attorno al 1950, ciascuno con le proprie caratteristiche, a cominciare da coloro che ci hanno lasciato da tempo, come Enzo Tresca, o da pochissimi anni, come Maniglio Botti. A detta di tutti il numero 1 era ed è ancora oggi Massimo Lodi, ma non gli è stato da meno Gianni Spartà, a lungo cronista giudiziario e poi autore di pregevoli libri tra cui “Mister Ignis” dedicato alla vita e alle opere di Giovanni Borghi.
Al gruppetto dei ventenni dei primi Anni Settanta si sono aggiunti presto Claudio Piovanelli e il citato Giancarlo Pigionatti. Nel 1974 potei firmare il primo contratto da redattore ma limitato alla Prealpina del lunedì, un tempo testata autonoma e con un direttore diverso da quello della Prealpina. Mi assunse il professor Lorenzo Morcelli, uomo di grande cultura - conosceva anche la lingua ebraica - e nel resto della settimana preside di scuola media. Due anni dopo, la prematura scomparsa del collega Vittorio Mambretti mi aprì le porte della redazione della Prealpina, in cui divenni l’allievo di Gaspare Morgione nella sezione Interni-Esteri a cui toccava la confezione della prima pagina.

Da Morgione, Lodi e Vedani a Mino Durand, nomi mitologici della Prealpina: raccontaci tutto. 

Se gli altri giovani colleghi avevano avuto modo di crescere sotto la guida magistrale del “cardinale” Pier Fausto Vedani, io ebbi la fortuna di maturare anche come uomo lavorando a fianco di un giornalista che non guardava in faccia a nessuno pur rispettando tutti, e di un grande scrittore satirico, oltre che vignettista, che mi associò anche nella quotidiana stesura del graffiante “Microsolco”. 
Quando l’era di Mario Lodi, di Morgione e di Vedani giunse al termine, l’editore Roberto Ferrario - succeduto allo zio Stefano - chiamò a dirigere la Prealpina Mino Durand, che vantava, oltre a ruoli direttivi, una lunga esperienza di inviato speciale del Corriere della Sera. Se da Morgione, che era anche un maestro di lingua, avevo imparato il rigore e l’obiettività, da Gerolamo (Mino) Durand appresi quel pizzico di malizia che ha contribuito a farmi diventare, scusate l’immodestia, un egregio titolista.
Il nuovo direttore mi prese come suo braccio destro e mi affidò la cura, oltre che della prima pagina, della sezione Interni-Esteri-Economia e Cultura di cui divenni caposervizio. La successiva promozione, a caporedattore centrale, incarico che mantenni fino all’età della pensione, raggiunta quattordici anni fa, la devo al successore di Durand, Luigi Gervasutti. Non era un compito semplice dal momento che dovevo coordinare il lavoro delle sei redazioni (Varese, Busto Arsizio, Gallarate, Saronno, Legnano e Verbania) su cui poteva contare la Prealpina di allora. 

Oggi che hai gettato uno sguardo da storyteller su Varese, esaltandone particolari e aneddoti, qual è secondo te il suo angolo più suggestivo?

Dopo aver chiuso con la cronaca sono passato alla storia. Confesso che a differenza di altri miei colleghi non mi sono mai interessato del passato della mia città e del suo territorio. Anche per alcuni anni da quando mi sono iscritto a Facebook ho pubblicato post di carattere generale spesso conditi dall’ironia e dalla satira imparate da Gaspare Morgione.
Sei/sette anni fa, avendo avuto in dono dall’amico Giannone la riproduzione di centinaia di immagini della vecchia Varese mi è venuta l’idea di confrontare i luoghi del passato con il loro aspetto attuale e sono andato a fotografarli. Con sintetiche ricostruzioni storiche ho cominciato a pubblicare la serie di Varese com’era e com’è su Facebook per poi raccogliere il risultato finale nel volume “Cara Varese come sei cambiata” edito da Macchione.
Lo sguardo così esteso mi rende difficile dire qual è per me l’angolo più suggestivo. Stringi stringi mi rifugio nella piazza del Podestà, o del Garibaldino, dove continua vivere il centro dell’antico borgo, con il Palazzo Pretorio, sede del Comune fino al 1882, il Palazzo Biumi con il suo Broletto e l’Arco Mera oltre il quale si vede la basilica di San Vittore.

L’angolo o il luogo che andrebbe meglio valorizzato, invece?

Per nostra fortuna la metà del centro storico scampata al “rinnovamento edilizio” del Novecento, tra via Sacco e via Cavour, mi sembra che sia ben tenuta. Ciò che manca nel resto della città è una regolare manutenzione a cominciare dai tombini e dai condotti per lo smaltimento dell’acqua piovana, una falla che ci è costata l’affondamento dell’ultima edizione della Tre Valli. Se devo scegliere un luogo da valorizzare suggerirei l’antico comune di Masnago che, con il palazzetto rinnovato e il nuovo stadio, potrebbe accrescere la sua attrattiva.

Che cosa manca oggi rispetto alla “Varese da bere” di quando lavoravi in via Tamagno?

Confesso che non ho mai partecipato alla “movida” con i suoi eccessi alcolici. Dei miei bei tempi andati mancano a me come a tanti altri le “vasche” in corso Matteotti, quando si camminava tutti insieme, chi per abbordare una ragazza, o un ragazzo, o semplicemente per chiacchierare. Di sera, attorno al Garibaldino, ci trovavamo io e i miei amici a parlare di musica, di sport e di politica. Della “Varese da bere” ci mancano i negozi storici (oggi il commercio è in catene) e il rapporto umano con i commercianti. 

Varese è cambiata e sta cambiando volto anche adesso, con i grandi cantieri aperti tipo quello nell'area ex Aermacchi. Qual è il tuo giudizio?

Negli ultimi anni sono stati finalmente messi in cantiere, e di ciò va dato atto all’amministrazione guidata da Davide Galimberti, tanti progetti rimasti per diverso tempo nel cassetto. È stata rinnovata l’area delle stazioni con la nuova stazione degli autobus extraurbani a fianco delle Ferrovie Nord e, purtroppo, con un deficit di verde davanti alle Ferrovie dello Stato.
È a buon punto il restauro della caserma Garibaldi, destinata a diventare un polo culturale, nella quale io - per la verità - al piano terreno avrei posto il comando della Polizia locale, in un luogo strategico per la sicurezza.
In piazza XX Settembre sta per sorgere il nuovo Politeama, con la torre scenica e la buca per l’orchestra. Non è un grande cantiere ma è un cantiere diffuso quello dello studentato di Biumo Inferiore che comporterà il restauro di palazzi e cortili dell’antica castellanza.
Per quanto riguarda l’Aermacchi trovo positivo il definitivo via libera al grande investimento di Paolo Orrigoni che dovrebbe consegnarci un’area rinnovata e in larga misura verde. Del resto non aveva senso conservare nella totalità edifici industriali che, costruiti dopo il bombardamento alleato del 30 aprile 1944, non avevano nulla di architettonicamente pregevole. 

Dove nasce il tuo amore per la Città Giardino, che hai trasmesso anche a tuo figlio Federico?

Sono nato a Varese, in via Magenta, e da allora ho abitato in otto diverse case di Varese centro, delle castellanze e dei rioni. Mi sono trovato bene dappertutto e in ogni residenza ho intessuto appaganti rapporti umani. Pur ritenendomi un cittadino del mondo, non lascerei Varese per tutto l’oro del mondo. A mio figlio ho trasmesso soprattutto l’amore per i colori biancorossi. Aveva 5 anni quando lo portai per la prima volta al “Franco Ossola”. Sa tutto della storia del Varese e negli ultimi cinque anni del Varese in serie B si è cimentato come cronista sportivo, molto più bravo di suo padre. 

Lo stadio è un problema insormontabile?

Essendo venuto a cadere il vincolo del mantenimento della pista ciclistica, il nuovo stadio si può fare in forme moderne. Il problema è rendere la gestione dell’impianto economicamente sostenibile. Certo che se il Varese potesse contare sulla metà dei 23mila spettatori che assistettero a quel Varese-Torino, con arbitro Lo Bello…

Un tuo giudizio da tifoso del Varese di quest’anno?

Mi sembra che gli acquisti siano stati più mirati. Potessimo schierare sempre D’Iglio e Valagussa dietro il tecnico Banfi, il rapido Barzotti e Stampi, che sulla corsia di sinistra salta sempre l’uomo, il primo posto non ce lo toglierebbe nessuno. 

Parlaci della seguitissima pagina Facebook La Varese Nascosta dove c'è molto di te e della tua anima.

Come si sa, il gruppo nacque per iniziativa del compianto Andrea Badoglio e di Luigi Manco, funzionario della Questura varesina. La vista della guglia del monumento funebre della famiglia Baragiola, scampato al bombardamento del primo aprile 1944 che devastò l’antico cimitero di Masnago, spinse Andrea e Luigi a fondare un gruppo che riportasse alla luce le bellezze varesine del passato e mostrasse il bello della città che tutti abbiamo sotto gli occhi ma che spesso non vediamo.
Il gruppo, sopravvissuto alla triste perdita di Badoglio, sta tagliando il traguardo dei trentamila iscritti e di recente ha costituito un’associazione ODV che propone o asseconda iniziative culturali. Dell’associazione, presieduta da Luigi Manco e che ha in Paolo Musajo Somma di Galesano il solerte segretario, sono stato nominato vicepresidente. Sarò sempre grato ad Andrea Badoglio per avermi incoraggiato nella pubblicazione di post sulla storia varesina da cui ho tratto il materiale per i cinque libri che ho pubblicato negli ultimi otto anni.

E allora parlaci anche delle tue fatiche letterarie.

Il mio esordio come cronista della storia – gli scrittori sono un’altra categoria – ebbe luogo nel 2016 quando uscì nelle librerie “Cara Varese come sei cambiata” che mi risulta continui ad essere apprezzato dai lettori. Un anno dopo seguì “Cartoline da Varese”, un libro illustrato con le foto in bianco e nero di diversi aspetti della storia varesina, dalla fede al lavoro, dagli svaghi alla cucina, dal mondo dei trasporti all’architettura. Lo stesso anno, il 2017, vide la luce “La grande Varese ha novant’anni”, commissionatomi dal Comune di Varese per documentare l’ampliamento del territorio comunale in occasione dell’elevazione della città a capoluogo di provincia. Tre anni fa ebbi l’onore di lavorare con il professor Silvano Colombo, storico dell’arte e a lungo direttore dei Musei civici, alla stesura del libro “Nobiltà del territorio varesino”.

Raccontaci di "MiVa", l'ultima ma sicuramente non ultima tua fatica.

L'ho condivisa con il collega Federico Bianchessi ed è nelle librerie dall’estate scorsa: io varesino doc e lui milanese trapiantato sotto il Sacro Monte abbiamo scritto “MiVa”, che racconta la lunga amicizia tra Milano e Varese, venti capitoli per narrare lo scambio di risorse umane, il pendolarismo tra le due città in tutti i campi, dalla religione alla politica, dalla scienza all’industria, dall’arte e dall’architettura allo spettacolo oltre che le grandi sfide sportive. Come nella mia attività giornalistica in Prealpina anche da pensionato attivo ho lavorato, Comune a parte, per un solo editore, l’amico Pietro Macchione.

 

Claudio Ferretti