Territorio - 08 novembre 2024, 16:20

Tutti i volti del Monte Rosa, il fotografo Meazza racconta la montagna del destino

Nel 1992, in memoria di quel padre che gli trasmise conoscenza e passione, la pubblicazione di un libro che fece scalpore, per le straordinarie immagini e l'umanità sapientemente catturata. Oggi un nuovo viaggio per il fotografo varesino, negli stessi luoghi, appoggiato sul pattino di un elicottero a -12 gradi oppure dentro le case di pastori e alpinisti, a immortalare con il suo obbiettivo un tempo che è fuggito e non torna più: «Quando arrivo e vedo certi paesaggi mi commuovo ancora: in montagna troviamo le ragioni della nostra malinconia. Per me il Monte Rosa è la pace»

L’amore di Carlo Meazza per il Monte Rosa è come la Sonata per violino e pianoforte di César Franck: ciclico. Un amore che ritorna prepotente a 32 anni di distanza dalla pubblicazione di un libro che fece scalpore, anche per la straordinaria fotografia di copertina con la montagna ripresa dall’elicottero con un fisheye, simile alla sfera terrestre, e si manifesta attraverso le immagini di una nuova pubblicazione, frutto di un lavoro minuzioso e di una profonda meditazione sullo scorrere del tempo. Il volume del 1992, dedicato alla memoria del padre Giuseppe, che gli fece conoscere il carattere della montagna e della sua gente, contava come quello odierno i testi di specialisti come Luigi Zanzi, tra i maggiori conoscitori delle nostre Alpi, e di Enrico Rizzi, studioso della cultura Walser, a testimonianza della fedeltà di Meazza ai legami amicali oltre che professionali. 

Edito da Pubblinova Edizioni Negri, il nuovo libro, presentato alla città lunedì 2 dicembre alle ore 21 in Sala Montanari, con la presenza di Marta Morazzoni, autrice dello scritto introduttivo, e dell’attore Giuseppe Cederna che leggerà alcune poesie dedicate alla montagna, è un monumento fotografico al Monte Rosa, alla sua storia e alle donne e agli uomini che resistono al mutare delle mode e al cambiamento climatico, molti dei quali già ritratti da Meazza un trentennio fa. A completare la pubblicazione gli scritti di Luigi e Barbara Zanzi, presidente del Comitato della Comunità Walser di Macugnaga, Marzia Verona, allevatrice e scrittrice, Lucia Maggiolo, contadina ed esperta di pastorizia, Enrico Rizzi e Teresio Valsesia, alpinista e fondatore del Cai di Macugnaga, oltre che collaboratore de “La Stampa” di Torino. 

Il Monte Rosa, per noi varesini, è una presenza costante, «una grande realtà montana da scoprire», come scrisse Luigi Zanzi, e lo skyline che vediamo a pochi chilometri dall’imbocco dell’autostrada per Milano è tra i più belli al mondo, con la grande montagna che sembra proteggere il resto del paesaggio come un lare quieto e saggio, a volte coperto di nuvole, altre scolpito nel cielo. Il lavoro di Meazza ce lo fa conoscere intimamente, raccontandoci del lavoro virtuoso dell’uomo ma anche delle sue colpe, con il riscaldamento globale che distrugge i ghiacciaicon una radiografia impietosa del loro stato, a 32 anni di distanza dagli scatti del primo libro. 

Accanto a fotografie altamente spettacolari, come quelle dei ghiacciai ripresi dall’elicottero, con l’autore all’esterno poggiato su uno dei pattini a meno 12 gradi, nel febbraio 2023, ecco gli scatti più intimi, quelli del cuore e della socialità, con i volti dei pastori e degli alpinisti, ritratti a volte nelle loro case e chiamati a scrivere la loro storia, con i testi raccolti alla fine del volume. 

Abbiamo chiesto a Carlo Meazza le ragioni dell’idea di pubblicare una nuova testimonianza della montagna più amata dai varesini.

«Perché il Rosa è là, come 32 anni fa. Me lo fece conoscere mio padre, che lo scalò diverse volte. Partiva in bicicletta da Varese, la lasciava a Macugnaga e poi saliva allo Stralhorn, alla Cresta Signal o al Canale Marinelli, poi riscendeva riprendeva la bici fino a casa. Cose incredibili a pensarle oggi. Ma la mia è anche una riflessione sul tempo che corre e agisce dentro di noi e sul paesaggio. Sono voluto entrare nel mondo della montagna con serenità, cercando di capire cosa fosse cambiato dopo trent’anni. Purtroppo i ghiacciai sono in grande sofferenza, l’Indren offre un paesaggio lunare, con sassi che affiorano e un ghiaccio ormai solo di pochi centimetri. La gente è preoccupata per le riserve idriche e anche per la presenza dei lupi. A me piace pensare invece che il lupo mi veda anche se io non vedo lui».

Cosa ami di più del Monte Rosa?

«La gente, lo stare lì, scendere dalla macchina e mettermi a camminare. Spesso quando arrivo mi commuovo nel vedere certe luci in un paesaggio che peraltro conosco a menadito. Ritornandoci spesso mi accorgo di come le persone somigliano ai larici e alle rocce, è come se prendessero le sembianze del mondo che li circonda. Ho fotografato adulti che erano bambini nel primo libro e adulti oggi molto anziani, ho voluto documentare il passare del tempo sulla fisicità di persone e luoghi. Però non mi so dare una riposta sul perché la montagna mi piaccia così tanto, forse perché nel paesaggio spesso si trovano le ragioni della propria malinconia. Sul Rosa ho raggiunto la pace, la stessa che mi dà il parlare con la gente. In montagna automaticamente ti metti a fuoco su te stesso e non desideri altro».

Come descriveresti il tuo modo di fotografare?

«Mi sento un documentarista, che racconta la realtà attraverso la fotografia. Mi piace scoprire nuovi paesaggi, la mia è una fotografia tradizionale, non di ricerca. Tra i miei numerosi libri quelli che amo di più sono il volume dedicato ai paesaggi della Resistenza e “Remènch”, sulla transumanza, con le storie dei pastori che vivono come i lori antenati scontrandosi ogni giorno con la modernità. Incontrandoli, mi sono reso conto di come la loro sia una vita essenziale, un insegnamento a lasciare indietro tutto ciò che non è necessario».

Uno dei tuoi primi libri, del 1979, è stato “Sacro Monte. Arte paesaggio religione folklore”, interamente in bianco e nero. Lo rifaresti, a distanza di 45 anni?

«Sì, sempre in bianco e nero e puntandolo sulla gente, perché il Viale delle Cappelle è identico, ma i fruitori sono cambiati, spesso lo si risale per fare jogging e molti sportivi lo prediligono per allenarsi».

Nel vedere le splendide luci regalate dal Monte Rosa nelle diverse stagioni, con i tramonti infuocati, i lariceti dorati, i pascoli punteggiati dai ranuncoli, l’altera solitudine dei ghiacciai, i gerani ai balconi delle case Walser, i primi colonizzatori, i volti degli anziani con le rughe simili a crepacci, capiamo quanto amore ci abbia messo Meazza nel donarci la sua visione della montagna, una visione pacificante e rigorosa insieme, frutto di una profonda meditazione sulla vita e sul tempo, che in natura sembra scorrere più lento, consentendo a noi, costretti alla velocità, di allineare i pensieri al mutare della luce o al fiorire di una genziana. 

Perché la montagna a volte è come una madre, alla quale desideriamo confidarci ma non ne siamo capaci, frenati dalla sua apparente severità, mentre vorremmo abbracciarla con tutte le nostre forze e far parte di lei. Come il bambino Carlo, che alla Schiranna, mentre prendeva un bagno a lago, vedeva la sagoma del Rosa riflettersi nell’acqua, e pensava così di tuffarsi in quelle nevi eterne.

Mario Chiodetti