Capita a volte che la pagina bianca si trasformi in un confessionale, e la penna, o meglio la tastiera del computer, si metta improvvisamente a elencare i “peccati”, quasi tutti di gioventù, che ognuno di noi, chissà perché, conserva nella memoria più facilmente degli atti virtuosi. Così ne esce fuori un libro del tutto fuori onda, specchio dell’autore stesso, da sempre controcorrente, politicamente assai scorretto e del tutto alieno dalla forsennata moda della “cancel culture”, ma figlio del suo tempo, quello moralmente disinvolto degli anni da bere, con qualche reminiscenza del motto Duryano “sex & drugs & rock’n’roll”.
A quei tempi la vita si trangugiava a sorsate, e Alberto Bortoluzzi c’era già da prima, e remava al contrario, fin da bambino, quando scappò alla tata tedesca per il gusto di farlo o rubò il soldatino di Napoleone a cavallo all’amico Miguel e il resto della truppa al Coin, pizzicato dalla security. Il futuro fotografo, e ora scrittore, nato il 13 giugno 1961, ha deciso di mettersi a nudo, unendo “sessantacinque sorsi di vita vissuta” nel libro “Long drink”, vincitore del Premio Chiara per una raccolta di racconti inediti e pubblicato dall’editore Pietro Macchione a cura degli Amici di Piero Chiara.
E qui incomincia l’avventura di un uomo rimasto (per fortuna?) adolescente nello spirito, senza paura di raccontare aneddoti pruriginosi e per qualcuno imbarazzanti, citando nomi e cognomi, avventure erotiche e fumate d’oppio in Thailandia, incendi spenti con la divisa da pompiere, sbronze di birra a Urbino durante gli anni universitari e ragazze portate in stanza di soppiatto per timore di essere scoperto dall’affittacamere.
A sessant’anni si incominciano a tirare le somme dell’esistenza trascorsa, con i rimpianti, i sensi di colpa, le rose non colte e tutto l’armamentario legato agli amori infranti e a quelli non consumati, ai due di picche e alla donna della vita che aspettiamo dall’adolescenza, al cammino professionale che quasi mai rappresenta davvero l’essenza di ciò che siamo.
Alberto mette tutto questo nel libro, inseguendosi passo passo dall’infanzia agli anni adulti, con un’autoironia ammirevole, senza nascondere nulla - una volta si presentò nudo all’acquagym della piscina pieno di donne perché dopo la doccia dimenticò di infilarsi il costume - dei suoi sentimenti e delle azioni, a volte discutibili, compiute in giro per il mondo, spesso senza pensarci e agendo d’istinto, come può accadere scattando una fotografia o invitando a un concerto una ragazza appena conosciuta nel negozio di un’altra città (e sperando che arrivasse).
Quarant’anni fa era un altro mondo, e l’autore ne ha fatto parte da giovane uomo che cerca una direzione e ne sbaglia alcune, ma ridendoci su per scacciare la malinconia tuttora compagna di vita, e rendendoci partecipi di storie spesso inverosimili ma genuine, frutto di ingenuità e di fiducia nel prossimo non sempre ben riposta.
La prosa di Bortoluzzi è semplice e scarna, i suoi sono quasi appunti di diario che danno dignità a piccoli accadimenti quotidiani, vissuti spesso con la sua famiglia, papà e mamma cui il libro è dedicato, portatori di saggezza e di insegnamenti figli di un tempo che non c’è più. Certo, c’è rimpianto e un po’ di nostalgia per l’età in cui il mondo sembrava lì tutto per noi e bastava allungare la mano, ma in questi racconti, quasi pensieri ad alta voce, tutto ciò scivola via nel prendersi un po’ in giro o nel lodarsi per una conquista come si faceva da ragazzi, pensando di essere sempre nel giusto.
In fondo siamo figurine, come le Panini lanciate contro il muro giocando al “Lungo”, che il tempo piega e ingiallisce ma senza staccarle dall’album. La figurina di Alberto quel muro lo ha sempre superato, cadendo spesso al contrario ma rimanendo fiduciosa nell’arrivo del vento, che l’avrebbe riportata nel giusto verso, pronta a volare di nuovo verso l’ignoto. Un nulla diventato vita, gradino dopo gradino, e quindi meritevole di memoria e di pagine scritte di getto, forse per mitigare un dolore o alleggerire il cuore, o forse per dire a sé stesso che qualche giorno, anche in un mondo diverso, vale ancora la pena di essere vissuto.