Basket | 06 ottobre 2024, 20:10

Questa Varese non basta. Nemmeno quando prova a essere se stessa

IL COMMENTO DI FABIO GANDINI - Si fa presto a dire "correre", ma poi bisogna farlo per davvero... Dopo un anno e una partita di "digiuno", oggi almeno a tratti si è finalmente visto il paradigma pratico di quell'idea di gioco che nell'era Scola non è negoziabile. È bastato e basterà per sopravvivere? No se i tuoi difetti strutturali sono più grandi dei tuoi progetti. Secondo indizio di inadeguatezza, bisogna aggiungere: quanto si aspetterà?

Justin Gray fotografato da Fabio Averna

Justin Gray fotografato da Fabio Averna

Due indizi fanno una prova. E mille cosa fanno? Ci torniamo dopo. 

Perché la voglia - anche davanti a un’altra sconfitta, anche con lo 0 in classifica stampato sul cuore - è di partire comunque da un aspetto positivo. Da qualcosa di compiuto: nel film cestistico proiettato oggi a Masnago ci sono state effettivamente “immagini” biancorosse che possono essere definite in tal modo.

Se ne sentono sempre tante di parole (pensate che c’è anche chi ha detto che questa Varese punta ai playoff…). Tra le tante: vogliamo correre, vogliamo trovare il miglior tiro il prima possibile. 

È l’essenza del Moreyball. 

Eppure per un anno intero (lo scorso) più una partita (quella di domenica a Brescia), i propositi corsaioli e corsari sono rimasti banalmente a fluttuare nell’aria.

Correre, per una squadra costruita come la Openjobmetis, significa correre… sempre. Significa farlo anche dopo un canestro subito, significa non permettere mai alla difesa opposta di schierarsi, significa asfissiare l’avversario con il ritmo, significa sfiancarlo per 40 minuti.

Significa estremizzare una certa convinzione di pallacanestro e fonderla con l’atletica e il gioco d’azzardo.

È una scelta di sopravvivenza. La Varese che “pompa” la palla a metà campo, che pascola dietro la linea da tre cercando un pertugio, che si “riposa” senza essere vorace a puntare il ferro, non ha semplicemente diritto di cittadinanza in questa Serie A. Perché - senza le gambe levate - a non avere cittadinanza sono la sua stessa filosofia e le squadre che in base a essa vengono costruite.

Nel secondo quarto odierno all’Itelyum Arena si è finalmente ammirato il basket tanto predicato a parole: transizione primaria e soprattutto secondaria, l’uomo che prendeva il rimbalzo difensivo pronto a portarsi subito e direttamente dall’altra parte e ad attaccare il difensore, nessuna pausa, nessun momento per tirare il fiato e per ragionare, sia per i “mandoleiros” sia soprattutto per Tortona. Che infatti, per 10 minuti, è rimasta lì in preda al mal di mare.

Tutto ciò è stato il paradigma pratico di un’idea. E visto che questa idea, nell’era tecnica che inizia e finisce con Luis Scola, non è negoziabile, bene… che si proceda a giocare sempre così. 

Finché si può, finché si riesce, finché chi sta dall’altra parte non trova la maniera di abbassare il ritmo, di costringerti a ballare in una sola porzione di parquet e non a campo aperto. Può succedere, anzi succede. A quel punto la vendetta, anzi la lezione, può essere ferale ed è presto scritta: correre non basta se i tuoi difetti strutturali sono gravi e nettamente più grandi dei tuoi progetti.

E allora torniamo all’inizio, ai due indizi. Brescia prima e Tortona poi - antagoniste diverse nel modo di far male a Varese, ma accomunabili dalla zona in cui hanno esperito il loro predominio, ovvero l’ombra delle plance - hanno rivelato in egual modo che questa Varese ha bisogno di rinforzi sotto canestro.

Pena la retrocessione in Serie A2.

Chissà quante prove serviranno a chi ha costruito la Openjobmetis - cullandosi, peraltro, nella stessa cieca illusione dello scorso anno - per correre ai ripari… Aspettare che il “menù” del calendario - paravento di chi non vuol vedere - proponga una Cremona, una Pistoia o una Scafati potrebbe essere velleitario. E pericolosamente tardivo.

Fabio Gandini


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