Storie - 21 agosto 2024, 08:03

FOTO. Viaggio tra i fantasmi della Colonia Varese a Milano Marittima, dove Josè è il guardiano dei sogni dei bambini

Le immagini di Alessandro Umberto Galbiati ci conducono nel monumentale e spettrale edificio abbandonato che ospitava mille bambini progettato dallo stesso architetto di piazza Monte Grappa e che solo i pini marittimi dividono dalla folla agostana delle spiagge. Tra porticati, corridoi e muri crollati il carioca Josè è il "custode" di questa città delle ombre in cui spunta anche un quaderno degli ospiti con dediche e firme

L'impressionante gigante addormentato e ormai a pezzi della Colonia Varese di Milano Marittima visto dal drone e separato solo dai pini dalla folla agostana sulle spiagge (foto Alessandro Umberto Galbiati)

Prima o poi tutti sognano Parigi, anche chi non potrà mai visitarla, correre per i boulevard e salire sulla Tour Eiffel. L’unica ricchezza di Josè è una stampa che mostra una Ville Lumiere belle époque, uomini in cilindro e bastone, donne con larghi cappelli piumati, e carrozze sullo sfondo. L’ha appesa a un muro di mattoni a vista, e ciò che rimane dell’intonaco fa da grande cornice assieme ai resti di un mosaico verdazzurro, simile a un fondale di piscina. 

Josè non ha una casa, è arrivato dal Brasile perché anche lui aveva un sogno, e la sua casa è la Colonia Varese di Milano Marittima, o meglio ciò che rimane di edifici monumentali, costruiti a misura di regime dal 1937 al ’39 per volontà della Federazione dei Fasci della nostra provincia e intitolati a Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, il ministro ribelle fatto fucilare dal suocero Mussolini. Una piccola città fantasma, progettata dall’architetto Mario Loreti, lo stesso della nostra piazza Monte Grappa, con il mare a due passi, un folto di pini marittimi a segnare il confine tra il nulla e la folla agostana arroventata dal sole, ignara del passato e del sorriso di Josè. 

Qui nel 1939 mille bambini, maschi e femmine rigorosamente separati, trascorrevano la loro vacanza, al vento e alla luce, come la propaganda voleva, imparavano a diventare buoni fascisti e a poter contare su sé stessi, lontano dai genitori e dai disagi della guerra che di lì a poco avrebbe sconvolto il mondo. Nel 1940 poi, alla Colonia Varese sarebbero arrivati i figli degli italiani residenti a Tripoli, città parte dell’Impero mussoliniano, e «bel suol d’amore» fin dal 1911, ai tempi del conflitto italo-turco. 

È il fotografo varesino Alessandro Galbiati a farci scoprire una struttura gigantesca, che un tempo contava anche su un Luna Park e fu adibita, dopo la chiusura nel 1941 a causa della guerra, prima come prigione dalle truppe tedesche e quindi come ospedale militare per i soldati australiani, con i viali a lato degli edifici a fare da pista di decollo e atterraggio per gli aerei della Royal Australian Air Force. Di proprietà della Regione Emilia Romagna, dagli anni ’50 è in stato di abbandono, peggiorato dopo il crollo di molte sue parti nel 2020, ma non viene demolita per il valore storico artistico, come simbolo dell’architettura razionalista del tempo. 

Le fotografie di Galbiati mostrano la vastità degli spazi in ossequio alla grandeur imposta dal regime, porticati e corridoi, muri crollati e il ferro del cemento armato che penzola dalle pareti divelte, uno scenario perfetto per il film horror “Zeder” che Pupi Avati girò qui nel 1983. Un deserto di cemento e mattoni dove tra i bimbi nascevano amicizie e competizioni, e tra le bimbe forse l’idea di una famiglia e dei figli, in un’Italia già segnata dalla sconfitta e dall’agonia delle bombe. 

Ma nella grigia perfezione dell’architettura loretiana, il carioca Josè ha portato il colore della poesia, e pur nella povertà estrema cerca di far assomigliare il deserto a una piccola oasi, una casa che fa venire in mente quella della canzone di Sergio Endrigo e Vinicius De Moraes, «senza soffitto, senza cucina» dove «non si poteva entrarci dentro perché non c’era il pavimento». Ma Josè ha perfino incorniciato l’articolo di una sua vecchia intervista, trovato una vecchia sedia con il logo della Coca Cola e rimediato una vasca da bagno semi arrugginita, oltre alla stampa di Parigi e a una esoterica corona di ferro. Tenuto fermo da sassi e pezzi di mattone, ecco poi il quaderno degli ospiti, con le dediche e le firme di chi passa di lì per curiosità o per sfidare il pericolo di crolli: «Ciao Josè, sei mio fratello», scrive FR che firma con un cuore, e un altro ospite «sono il tuo migliore amico». 

Una porta di fortuna si apre sulla camera da letto del guardiano della Colonia Varese, ogni cosa è ordinata e pulita, predomina il giallo e dietro la testata del letto ci sono girasoli stampati a dare gioia e colore, e fiori compaiono sulla coperta a giorno. José è un romantico, lo si vede dagli occhi, e sul cuscino ha posato un bambolotto con un cappello rosso, forse il simbolo di un lontano desiderio di paternità. Non ci sono più bambini a cinguettare nella pineta di Cervia, ma uno di loro, grande e solo, ne custodisce ogni giorno i sorrisi.

Mario Chiodetti