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Un Occhio sul Mondo | 08 giugno 2024, 09:00

Gaza, una mina tra Egitto e Israele

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

Gaza, una mina tra Egitto e Israele

IL 27 maggio è stata una delle tante giornate nere del conflitto tra Israele e Hamas, ma la gravità di quanto accaduto in questa giornata, non si limita “solo” alle decine di morti civili causati da un attacco delle Forze israeliane, per uccidere due capi del movimento terroristico. Infatti, questa tragedia umanitaria ha in parte coperto, perlomeno temporaneamente, lo scontro a fuoco avvenuto al valico di Rafah tra soldati di Tel Aviv e militari egiziani, in cui questi ultimi hanno subito un caduto ed alcuni feriti. Un episodio su cui entrambe le parti stanno indagando, ma che potrebbe assumere una rilevanza notevole nelle relazioni israelo-egiziane le quali, essendo in costante peggioramento, potrebbero costituire un ulteriore gigantesco problema. 

Tuttavia, si deve evidenziare che, a distanza di una decina di giorni, nessuna delle parti è tornata a commentare l'evento, per cui si potrebbe evincere la comune volontà di cercare di disinnescarne la pericolosità, in una situazione già al limite della completa deflagrazione.

I rapporti tra Egitto e Israele costituiscono da sempre un fattore fondamentale nella fragile stabilità del Medio Oriente, soprattutto perché le due Nazioni hanno costituito un esempio virtuoso in un panorama, normalmente afflitto da una grande e atavica conflittualità.

Dopo le 4 guerre che hanno caratterizzato il trentennio tra il 1948 e il 1973, i due Paesi riuscirono a far tacere la reciproca ostilità con il Trattato di Pace di Camp David che, indubbiamente, costituì un significativo successo per il Presidente degli USA Carter, ma quasi sicuramente segnò il destino di uno dei due illuminati Premier che siglarono l'Accordo. Infatti, l'egiziano Anwar al Sadat che, con l'israeliano Menachem Begin fu insignito del Premio Nobel per la pace, venne assassinato nel 1981 dalla Jihad islamica egiziana proprio per questo suo atto di pace. Una sorte che toccò nel 1995 anche al Premier israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da uno studente dell'estrema destra, che gli attribuiva la colpa di aver sottoscritto gli Accordi di Oslo, con cui si riconosceva l'OLP di Arafat come organo rappresentante del popolo palestinese.

L'Egitto fu quindi la prima Nazione araba a siglare la pace con Israele, un atto che gli costò l'esclusione dalla Lega Araba, ma che gli consentì di vivere un lungo periodo di relativa tranquillità, lungo un confine che gli aveva creato tanti problemi e lutti. I primi decenni furono contrassegnati da freddi rapporti solo formali, sino a quando il neo eletto Presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi avviò una progressivo processo di distensione, con lo sviluppo di cooperazioni con lo Stato ebraico, anche sui piani economico e strategico-militare.

Tale benevola situazione costituì un fattore catalizzatore anche per altri Paesi arabi, che annullarono i pregiudizi verso l'Egitto e si convinsero che una normalizzazione dei rapporti con Israele poteva essere un proficuo e percorribile percorso.

Purtroppo però, la situazione attuale ha assunto un nuovo scenario, decisamente più problematico per l'Egitto e, quasi per conseguenza, per tutta la Regione Medio orientale.

Al Sisi è stato recentemente eletto per la terza volta alla Presidenza, ma il suo compito risulta essere decisamente più arduo rispetto al passato, sia per ragioni interne che per le tristemente note vicende belliche legate alla crisi di Gaza.

L'attuale situazione economica egiziana, che già stava vivendo un momento di criticità, è pesantemente colpita dalle conseguenze del conflitto tra Israele e Hamas, che determina pesantissime ripercussioni soprattutto sul turismo, sulle esportazioni del gas e sugli introiti che arrivano dal Canale di Suez.

E' noto che il turismo costituisce un settore strategico per l'economia egiziana, in quanto esprime il 12% del PIL nazionale e rappresenta la principale sorgente di valuta estera. Il comparto si stava risollevando, dopo la profonda crisi dovuta alla Pandemia, segnando un 33% positivo nel 2023, un dato che ora sarà probabilmente cancellato dalle conseguenze della crisi di Gaza e di quella del Mar Rosso, causata dagli attacchi Houti.

Un ulteriore aspetto di vitale importanza per l'economia egiziana è quello energetico, che è fortemente legato ad accordi commerciali con Israele, stipulati per lo sfruttamento di importanti giacimenti di gas (Atoll e Zohr per l’Egitto e Tamar e Leviathan per Israele), scoperti nelle rispettive Zone di Interesse Esclusivo. In pratica, Israele si è impegnato ad esportare gas israeliano in Egitto per 10 anni, con un contratto di 15 miliardi di Dollari.

All'indomani del 7 ottobre 2023, Tel Aviv decise di sospendere temporaneamente le estrazioni dal giacimento di Tamar, determinando una forte riduzione delle attività di liquefazione nei due impianti egiziani di Idku e di Damietta e l'annullamento delle esportazioni verso sia l'Egitto che l'Europa. Le estrazioni a Tamar ripresero dopo poche settimane, ma questo breve periodo di fermo, che ha causato prolungati black out in tutto il territorio egiziano, ha evidenziato chiaramente una vistosa dipendenza energetica dell'Egitto da Israele, una vulnerabilità poco accettabile per Il Cairo, in un momento come quello attuale di profonda instabilità dell'intera Regione.

Altro importante motivo della profonda crisi economica egiziana è la forte riduzione del traffico navale attraverso il Canale di Suez, a causa dell'attività bellica degli Houti nel Mar Rosso. Nel 2023, l'Egitto ha incassato più di 9 miliardi di Dollari dai diritti di passaggio nel Canale, ma a partire da novembre, allorché gli attacchi Houti al traffico mercantile si sono decisamente intensificati, la contrazione delle entrate è stata del 50%, incidendo profondamente su quel 2% del PIL che hanno sempre garantito.

Tale situazione ha indotto la Comunità Internazionale ad intervenire in soccorso dell'Egitto, attraverso aiuti economici del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell’Unione europea (UE), consci dell'estrema esigenza di cercare di evitare un tracollo di un gigante medio-orientale che, però, sta dimostrando di avere dei “piedi di argilla”.

Quindi, è evidente che l'Egitto non sta di certo attraversando un buon momento economico-finanziario, che ovviamente si riflette negativamente sul benessere generale della popolazione la quale, oltre a patire una contrazione del suo potere d'acquisto, vive con preoccupazione lo spettro di un'invasione di profughi palestinesi, cacciati dai combattimenti nella Striscia di Gaza.

A questi problemi interni, si aggiungono quelli connessi con la guerra tra Hamas e Tel Aviv, che non sono da meno.

Sin dall'inizio della crisi, il Presidente al Sisi ha cercato di mantenere una posizione di mediazione, che lo ha portato a perseverare nella ricerca di soluzioni che possano conseguire, quantomeno, un cessate il fuoco ed il rilascio degli ostaggi israeliani, nelle mani di Hamas. In questo, l'Egitto è stato concretamente spalleggiato dal Qatar ed ha trovato una sponda volitiva e fattiva negli Stati Uniti, ma sinora i risultati sono stati fallimentari, come dimostrato dagli incontri di Doha dello scorso marzo.

Tuttavia, un altro problema assilla la Comunità Internazionale e riguarda la tenuta dei rapporti collaborativi e pacifici tra Il Cairo e Tel Aviv, perché è concreta la possibilità che possano deteriorarsi o, peggio, naufragare, visto che sussistono concreti e pericolosi motivi di attrito, derivanti soprattutto dalla crisi della Striscia.

L'offensiva di Israele a Gaza, come reazione all'attacco del 7 ottobre, soprattutto per la violenza con cui è stata condotta, ha indotto molti analisti a cominciare a pensare che la partnership strategica tra i due Paesi potesse vacillare. Convinzione che si è rafforzata allorché il 9 febbraio 2024, il Governo egiziano ha intimato a Tel Aviv di desistere dall'attacco a Rafah, pena addirittura la sospensione del Trattato di pace del 1979.

La seria preoccupazione egiziana deriva, in particolare, dalla quella massa di più di un milione di profughi che, sotto la pressione delle operazioni militari israeliane da nord verso sud, preme sul confine con l'Egitto, nei pressi del Valico di Rafah. Il Cairo è perfettamente conscio che, in un modo o nell'altro, questa disperata moltitudine dovrà trovare un “territorio di sfogo”, per non rimanere coinvolta nei combattimenti, con le conseguenze che i 35.000 civili morti, che già si registrano, possono facilmente far immaginare.

Gli Egiziani hanno già eretto, in prossimità del confine, un recinto murato di circa 8 miglia quadrate nel deserto del Sinai, in cui convogliare i profughi, qualora si verifichi l'ipotesi del loro sconfinamento, che gli Israeliani considerano parte integrante del loro piano militare, mentre Il Cairo lo ritiene una soluzione assolutamente indesiderata.

Qualora questo accadesse, non solo costringerebbe l'Egitto a dover gestire un'emergenza umanitaria di proporzioni bibliche, ma comporterebbe anche il rischio di ritrovarsi dei combattenti di Hamas, pronti a condurre attacchi verso Israele, partendo dal territorio egiziano. Questa ipotesi operativa Tel Aviv l'ha già messa in conto, prevedendo l'occupazione militare del cosiddetto “Corridoio Filadelfia”, una striscia di terra egiziana lungo il confine, di circa quattordici chilometri, che separa la Penisola del Sinai da Gaza.

Conoscendo la sua storia, che ci ricorda la disinvoltura con cui invase il Libano e considerando la spregiudicatezza (eufemismo) con cui sta conducendo la guerra ad Hamas, si può facilmente immaginare che Israele non abbia particolari remore ad attuare questo piano che, di fatto, lo porterebbe ad invadere l'Egitto.

Questo determinerebbe un inasprimento pressoché immediato dei rapporti, non solo tra i due Paesi ma, molto probabilmente, con tutto il mondo arabo, che si sentirebbe violato nella propria integrità territoriale e, soprattutto, colpito nel proprio orgoglio.

Si tratta dell'ipotesi più drammatica che si potrebbe verificare, determinando una deflagrazione di quasi tutto il Medio-Oriente e di un'intensificazione della crisi del Mar Rosso, con conseguenze pesantissime anche per l'Occidente.

Sussistono fattori che possano scongiurare questo scenario inquietante? Certamente si.

Un confronto duro tra Egitto ed Israele li costringerebbe a prevedere uno sforzo militare problematico per entrambi, pur se per motivi diversi. Per Il Cairo costituirebbe un forte incremento del suo impegno finanziario nel settore della Difesa, un onere che la sua disastrata situazione economica non riuscirebbe probabilmente a reggere. Per Tel Aviv invece significherebbe dover aprire un fronte meridionale nelle sue operazioni militari, con un ingaggio di forze ben superiore a quello che attualmente richiede la guerra ad Hamas. Forze che dovrebbe trarre dal richiamo delle sue riserve, con riflessi sulla propria forza-lavoro oppure sguarnendo il fronte nord lungo il confine con il Libano, per la felicità di Hezbollah.

Sotto il punto di vista economico, come detto, Israele e l'Egitto hanno importanti accordi nel settore energetico. La sospensione o peggio l'annullamento di tali collaborazioni comporterebbe forti ripercussioni per entrambi. Infatti, è vero che l’Egitto necessita di tali accordi per soddisfare la crescente domanda interna di energia, ma è altrettanto vero che Israele ha bisogno di garantirsi il rifornimento energetico egiziano, perché un attacco alle sue piattaforme di gas potrebbe seriamente compromettere la sua sicurezza generale.

Inoltre, è necessario considerare che nel 2022, a seguito della crisi ucraina, Egitto, Israele e la UE hanno firmato un accordo che ha incrementato le esportazioni di gas naturale liquefatto verso l’Europa, ma ha anche incrementato le entrate nelle casse egiziane ed israeliane. Un flusso di denaro, costantemente in crescita, che fa molto comodo ad entrambe le economie.

Come si può vedere, sono tutte motivazioni razionali, concrete e sensate, che dovrebbero indurre chi governa ad assumere decisioni altrettanto razionali, concrete e sensate. La storia però ci insegna che talvolta la leadership politica non ragiona con questi criteri e si indirizza su percorsi che portano al disastro. Purtroppo, in questo momento, un leader su tutti sembra rispondere a questo teorema perverso. Il suo nome è Benjamin Netanyahu e questo potrebbe essere il vero problema.

Marcello Bellacicco

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