Una stupenda storia d'amore, ricca di risvolti umani e il cui destino è stato scritto dai protagonisti anche quando si trovavano distanti, da quel primo incontro casuale da giovanissimi al bar Pirola di Varese - dove andavano i calciatori biancorossi del tempo - e poi coltivato e trasformato in una vita dove Pietro Anastasi e la sua Anna Bianchi sono stati molto più che inseparabili, anime all'unisono, il sorriso di lui e l'idem sentire di lei sopra tutto e tutti, un gol e le terre natie da condividere come tutto il resto, esattamente a metà come la ferma delicatezza, la dolce appartenenza, la ritrosia ai riflettori che oggi Anna fa emergere con pudore in queste righe piene di tutto per il suo Pietro.
Pietro, per sempre nella Hall of Fame del calcio italiano, nasce a Catania nel 1948 e se ne va a Varese il 17 gennaio del 2020. Calciatore, anzi centravanti dai tratti inimitabili in una carriera sportiva piena di scudetti con la Juventus (1971-72, 1972-73, 1974-75), finali europee (Coppa delle Fiere 1971, Coppa dei Campioni e Coppa intercontinentale 1973) e di quel titolo di campione europeo con la nazionale azzurra nel 1968 da condividere con un altro grande con cui si è ora ritrovato a giocare e mostrare meraviglie nei cieli come Gigi Riva. Pietro simbolo di un'intera classe sociale che a malincuore lasciava il sud per trasferirsi al nord e guadagnarsi da vivere. Pietro che arriva a Varese e al Varese a 18 anni da Catania e dalla sua Sicilia per poi passare a Juventus, Inter, Ascoli e terminare la carriera nel Lugano nel 1982. Pietro, anzi Pietruzzu raccontato dalla moglie Anna Bianchi, conosciuta nel 1967.
Anna, come ha scoperto il suo Pietro?
Avevo 17 anni e lui 19, fu una mia amica a portarmi al bar Pirola, dove andavano i calciatori biancorossi del tempo: lei conosceva bene il posto, mentre per me era la prima volta. Ricordo che mi presentò Pietro, e la mia reazione non fu per niente positiva. A prima vista non mi piacque per nulla. Poi, mentre prendevamo il caffè, mi hanno creato una forte emozione il suo sguardo profondo ed il suo magnifico sorriso, che è stato per tutta la vita il suo grande segno di riconoscimento.
Fu amore a prima vista?
Ci siamo subito piaciuti, però erano altri tempi: ci si vedeva saltuariamente e quando dissi a mia madre che frequentavo un calciatore non fu per nulla soddisfatta. Ricordo che a volte capitava anche di vedere i cartelli fuori dalle case con la scritta “assolutamente non si affittano locali ai meridionali”. Il grande amore, la pazienza e il sorriso di Pietro conquistarono la fiducia di mia madre a tal punto che tra i due si creò un'intesa perfetta e un rapporto di grande stima.
Cosa accadde quando passò alla Juventus?
Anche in questo caso è stato l’amore a superare i limiti e le difficoltà. Eravamo fidanzati, ma ci vedevamo pochissimo, solo il lunedì e neppure sempre. La difficoltà era rappresentata dal fatto che io lavoravo in un ufficio a Campione d’Italia, ed avevo a disposizione solo il tempo della pausa pranzo. Anche in questo caso Pietro, con la sua grande empatia, divenne amico del mio titolare, così ottenni qualche ora in più per stare insieme.
Non poteva seguirlo a Torino?
Lo stile Juve di quel periodo consentiva poche uscite. Era un ambiente molto serio e rigoroso, c’erano alcune regole comportamentali decise dall’Avvocato a cui non si poteva derogare. Ad esempio alle cene tra calciatori e dirigenza erano ammesse solo le mogli e le fidanzate non potevano partecipare: unica eccezione ammessa per la compagna di Francesco Morini, che era la figlia di un dirigente Fiat. Dopo il fidanzamento ci sposammo nel 1970, con un meraviglioso viaggio di nozze a Parigi in macchina insieme a Gedeone Carmignani e sua moglie.
Come si è trovata sotto la Mole?
Molto bene, come accadde anche a Milano e ad Ascoli. Ho coltivato diverse amicizie vive ancora oggi. Ovunque andava Pietro, conquistata i tifosi: aveva sempre tanta gente attorno ed era disponibile con tutti. Ricordo che quando andavamo in centro a Torino, si fermava a firmare autografi e a parlare con chiunque. Io, che di natura sono sempre stata timida, stavo un poco in disparte, però recepivo il sentimento sincero e il grande affetto della città.
Legame di Pietro con Varese?
Anche in questo caso fu amore a prima vista. Io spesso dicevo che pur essendo varesina, non avevo nulla in contrario a vivere in un'altra città o in Sicilia, regione che amo tantissimo. Ma è sempre stato lui a voler tornare e rimanere a Varese, dove conosceva ogni angolo e dove è sempre stato amato dalla gente sino all’ultimo. Il suo grande sorriso ha conquistato anche il cuore dei bosini: amava molto girare la città e non solo, spesso sceglieva il lago Maggiore.
E quello con Gigi Riva?
Erano legati dall'Europeo vinto da giovanissimi azzurri nel '68: entrambi si sono poi resi conto di quanto significò quella grande vittoria. Quando Gigi veniva a Varese si vedevano e si scambiavano qualche telefonata. Entrambi erano molto riservati e di poche parole: la loro era una conversazione di due persone semplici che non amavano l'esposizione mediatica. Mio figlio Gianluca è tuttora in contatto con Nicola, il figlio di Gigi Riva a cui ha espresso le condoglianze di tutta la nostra famiglia per la scomparsa del papà.
Un allenatore di suo marito che ricorda in modo particolare?
Armando Picchi, che ho avuto il piacere di conoscere a Varese come calciatore: mi chiamava "la Bimba", era una persona e un allenatore speciale. Aveva un carisma straordinario e un carattere forte, non aveva timore nel prendersi le sue responsabilità e nel difendere i suoi ragazzi davanti a dirigenza, giornalisti e opinione pubblica.
Ci racconta qualche particolare curioso di casa Anastasi?
La nostra casa è sempre stata aperta a tutti. A Torino era consuetudine che i compagni di squadra di Pietro venissero a mangiare spaghetti al ritorno da qualche serata di incontri con la tifoseria nei vari club. Li preparavo con vari sughi per Gentile, Spinosi, Marchetti, Scirea, Furino, Bettega: Pietro amava la buona cucina e adorava "creare" i primi piatti, mentre io mi occupavo del secondo. Avevamo sintonia anche dietro i fornelli. Aveva una particolare predilezione per la macelleria dell'amico Candido. Si era talmente integrato nella cultura varesina che si cucinava spesso la polenta con la cassoeula. Io avevo fatto altrettanto con la sua Sicilia: adoro ancora la parmigiana, la caponata e una particolare specialità dalla ricetta segreta che mi preparava mia suocera. Chissà, magari quando tornerò in Sicilia avrò ancora la fortuna di assaggiarla da qualche parente.
A livello caratteriale com'era Pietro?
Non manifestava molto i dispiaceri, bisognava lasciarlo sbollire. Io ho sempre cercato di stargli vicino, di non fargli pesare la difficoltà del momento, ma devo dire che il suo sorriso arrivava presto e mi apriva il cuore.
Avete mai avuto discussioni per il calcio?
Solo una volta a Torino. L’allora allenatore Parola non riusciva ad entrare in sintonia con Pietro. Ricordo che nelle giornate che precedevano un'importante partita con la Lazio, il mister decise di non farlo giocare titolare: Pietro si infuriò, intervenne anche l’Avvocato, ma non c’era ragione di arrivare ad un accordo. Pietro non voleva fare la riserva e neppure essere tra i convocati: il compito difficile spettò a me... Alla fine accettò la panchina, entrò a venti minuti dalla fine e segnò tre gol.
Grazie Anna per averci raccontato questa bellissima storia d’amore...
Ed è una storia che continua perché Pietro è il mio primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera.