Lara Comi, nuovamente parlamentare europea dal novembre 2022, «lo è tuttora nonostante la mala gestio che gli atti hanno messo in evidenza e senza aver restituito nulla, in un contesto di altissimo rischio di reiterazione di fatti analoghi».
I giudici
È uno dei passaggi delle motivazioni con cui i giudici del tribunale di Milano, lo scorso 2 ottobre, hanno condannato l'esponente politica di Forza Italia a quattro anni e due mesi nel processo ribattezzato "Mensa dei poveri" che vede imputati politici e imprenditori per un presunto giro di tangenti.
Lara Comi, difesa dall'avvocato Gian Piero Biancolella, era finita agli arresti domiciliari (poi revocati) nel novembre del 2019 per corruzione, false fatture e truffa ai danni dell'Unione europea per circa 500 mila euro per i corsi di formazione dei dipendenti di Afol, agenzia per la formazione, orientamento e lavoro.
I reati di cui la Comi è accusata, tra il novembre 2016 e il novembre 2018, «sono espressione di un medesimo disegno criminoso potendosi tratteggiare un fine specifico illecito immanente della Comi volto a ricavare dalle casse del Parlamento europeo proventi illeciti truffaldini a beneficio di se stessa, della sua famiglia, dei suoi amici e del partito; si tratta di un fil rouge che, come si è visto, - scrivono i giudici nelle oltre 650 pagine di motivazioni - ha caratterizzato tutto il percorso "europeo' della Comi", con «ingenti somme a favore di se stessa e della sua famiglia (o bypassando il conflitto di interessi, o mediante contratti truffaldini e successive distrazioni per molte centinaia di migliaia di euro)».
La replica
«Sono innocente! Mai preso fondi europei per me e per la mia famiglia, né mai ho partecipato ad accordi corruttivi. Ritengo che la sentenza sia ingiusta e contraddittoria: l’affermazione di responsabilità si fonda solo su elementi indizianti opinabili. Quanto sopra sarà dimostrato nell’atto di appello che il mio difensore presenterà». Così l'europarlamentare di Forza Italia Lara Comi commenta le motivazioni della sentenza milanese di primo grado, una sessantina gli imputati, con cui i giudici hanno condannato l'esponente politica di Forza Italia a quattro anni e due mesi nel processo ribattezzato "Mensa dei poveri" con al centro un presunto giro di tangenti.
«Quel che più mi colpisce è la violazione, in mio danno, della presunzione di innocenza, in quanto si ipotizza che potrei, come parlamentare eletto direttamente dai cittadini, commettere altri reati in danno del Parlamento europeo, istituzione che ho sempre servito con dedizione e passione nell’interesse dei cittadini», conclude Lara Comi.
L'imputata ha sempre dichiarato, in varie fasi del dibattimento, «non ho nulla da nascondere e ho sempre operato nel rispetto della legge. A riprova di ciò non mi sono avvalsa della immunità parlamentare lasciando alla magistratura, che non aveva richiesto nessuna autorizzazione, l’utilizzo di conversazioni, chat, email, nella consapevolezza che tale documentazione comprovasse la mia innocenza».
L'avvocato
La sentenza dei giudici del tribunale di Milano con cui l'europarlamentare Lara Comi è stata condannata a quattro anni e due mesi nel processo noto come "Mensa dei poveri" «offre ampi spazi argomentativi in fatto e in diritto per richiedere, con l’atto di appello, il riconoscimento dell’innocenza dell'onorevole Comi dalle accuse per le quali è stata inflitta una condanna che è certamente ingiusta e priva di solido supporto probatorio". Lo sostiene in una nota il suo difensore, l'avvocato Gian Piero Biancolella.
Per il difensore, dalla lettura della sentenza emerge come non siano stati tenuti in debita considerazione i criteri indicati dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di valutazione degli indizi, né l'apporto probatorio documentale prodotto dalla difesa «a riprova della trasparenza dell’operato di Lara Comi e segnatamente l’analisi dei conti correnti personali e l’analisi della documentazione bancaria effettuato sia dalla Banca d’Italia che dalla Gdf senza riscontrare alcuna anomalia».
A Biancolella «desta particolare perplessità e stupore l’inutile coinvolgimento della madre dell'onorevole Comi nelle motivazioni della sentenza. Nel corso del dibattimento è stato infatti ampiamente dimostrato che l’assunzione di quest’ultima, quale assistente parlamentare, è il frutto di un errore del terzo erogatore e che in ogni caso l’ammontare di quanto erroneamente percepito è stato interamente restituito al Parlamento europeo dal terzo erogatore».