Venezia era una sconfitta certa al minuto zero ed è diventata certissima al minuto 1, ovvero quando è arrivato - duro come un jab del Tyson dei tempi migliori - il riscontro del fatto che la Reyer avesse pure preparato con tutti i crismi il match contro i biancorossi. Rispettandoli.
Gli entusiasmi, la speranza, l’acquolina in bocca dopo 4 vittorie consecutive fanno parte del gioco e dell’amore: ci sono state stavolta ed è giusto che ci siano sempre. La realtà, ormai evidente con il senno del poi, è però cruda.
Impossibile per i padroni di casa controbattere alla potenza fisica degli ospiti: all’andata il problema aveva i connotati di Tessitori (grosso ma con dei limiti) e di Wiltjer (forte, a tratti fortissimo, ma non enorme), e già non c’era stata partita, anche perché a tentare di opporsi era il contemplativo WCS: al ritorno si è aggiunto anche Kabengele, una sorta di mostro dell’ultimo livello.
La somma fa forse la squadra più indigesta possibile per la cavalleria leggera targata Openjobmetis.
Ma la questione, come si accennava qualche riga fa, non è solo un tanto a poco in termini di chili e baldanza contro cui nulla si è potuto: Spahija ha anche messo a punto un piano partita perfetto, ben oltre il quasi scontato filone dell’1 vs 1 in post basso con i quattro, risultato la nota più suonata dello spartito lagunare. Venezia ha difeso con estrema intensità sugli esterni di casa, ha corso a perdifiato con delle rotazioni perfette, ha tolto il pick and roll a Mannion, ha dosato perfettamente il ritmo.
E ogni volta in cui la palla si è allontanata dalle plance, sono state triple e penetrazioni, alternate con una precisione d’esecuzione e di tempismo che avrebbe ammazzato pure il più agguerrito dei tori. Apprezzabile, allora, che Librizzi e compagni non abbiano mai mollato, non abbiano mai sbracato, lottando anche a partita abbondantemente finita: serve per l’immagine, servirà per ripartire.
La domanda, nonostante tutto, rimane lecita: si poteva fare di più?
Sì, la squadra di coach B. avrebbe potuto tirare meglio nel primo quarto, aprendo quell’area chiusa come un bulbo a inizio primavera. O avrebbe potuto - come ha fatto notare lo stesso Bialaszewski in sala stampa - provare ad anticipare il ricevitore sotto canestro, mettendo il corpo davanti e non irrimediabilmente sempre dietro. E ancora avrebbe potuto sfruttare meglio gli - per la verità pochi - stop difensivi, trovando in attacco una linfa che in realtà non è mai sgorgata fluida.
A tutto questo crediamo poco anche noi, perché è facile scriverlo dopo. Come è facile scrivere che con un altro allenatore, un altro sistema e quindi anche un altro amministratore delegato e un altro proprietario, si sarebbe potuta praticare la zona con una certa continuità, o dei raddoppi più costanti sotto canestro (facendo scelte che un’avversaria completa e micidiale come l’Umana sarebbe stata in grado comunque di punire), oppure ancora azzardare il doppio lungo, snaturando tuttavia completamente se stessa in fase offensiva.
Facemmo degli appunti molto simili un anno fa, dopo la sconfitta contro Pesaro in Coppa Italia, causata in buona parte dalle violenze di Charalampopoulos spalle a canestro. Ma oggi siamo ancora più consapevoli che si tratta di note tutto sommato inutili: Varese non cambia e non cambierà modo di giocare, non si adatterà quasi mai alla situazione e ancora più raramente all’avversario.
Pare allora più proficuo, molto più proficuo, chiedersi cosa fare di due giocatori che oggi come oggi non servono più, uno perché uscito dai piani tecnici dell’allenatore, l’altro perché impresentabile fisicamente e professionalmente. La panchina finalmente più lunga non vale il lusso di regalare sia Woldetensae che Young: uno dei due è di troppo nella sua inservibilità, uno dei due - se ci sono le possibilità - deve essere sostituito da un quattro che colmi almeno in parte quel gap fisico che Varese accusa ogni volta che il livello del tonnellaggio si alza così tanto.
In attesa di Okeke (quello vero, non quello che almeno per quest’anno faticosamente dovrà recuperare l’agonismo e il ritmo da un terribile infortunio), ci sembrerebbe una strada più fruttuosa della semplice speranza accesa dalla passione.