Chiamale se vuoi emozioni. Che arrivano, ti afferrano e ti fanno seguire con gli occhi la persona in cui sono racchiuse. La nostra finale di Coppa Italia della Solbiatese si può riassumere in questo: guardare Claudio Milanese e ritrovare noi stessi, il piacere del calcio e la felicità più pura, nella sua fiducia quando tutti avrebbero avuto paura di crederci ancora, nel suo trasporto per un piccolo grande intervento del portiere Seitaj a un passo dalla fine dei tempi regolamentari, nella sua immensa e strabordante gioia alla parata sull'ultimo rigore degli avversari.
Come può essere così esultante, euforico e felice Claudio Milanese che di esultanze, euforia e felicità nel mondo del calcio se ne intende? Come possiamo essere così esultanti, euforici e felici nel vederlo così, accanto alla Solbiatese, a questi ragazzi, a questo pubblico?
La risposta a questa domanda, per noi e per chi è a caccia di sogni e nuove frontiere, significa tanto, forse tutto. Capire quelle braccia e quei balzi al cielo, quegli abbracci di un condottiero e un patron come non ne abbiamo più ritrovati dai tempi di Sogliano, è il nostro compito di cronisti innamorati del calcio di provincia.
La risposta può essere questa.
La voglia di divertirsi, e divertirci, ritrovando la soddisfazione di aprire una strada che appariva chiusa.
Una squadra arrivata dalla prima categoria, vinta, dalla Promozione, vinta, dalla Coppa Italia, vinta, capace di essere imperfetta ma di volare alto sui luoghi comuni della gente e del calcio (prima il risultato, prima i procuratori, prima le promesse, prima le parole, prima io e poi tu).
Una società fatta di persone a cui dare fiducia anche nei (pochi) momenti difficili: prima si costruisce, poi si vince anche perché se non si costruisce non si vince (o lo si fa subito, ma poi si fallisce).
Un gruppo composto da giovani del territorio e allenatori cercati, scelti e voluti in base alla conoscenza dell'ambiente, al realismo del presente e al fiuto del futuro (se si cambia, si cambia davvero).
Un gioco e una filosofia aperti e mai barricaderi o rinunciatari.
Riassumendo: nuove sensazioni e giovani emozioni che si esprimono purissime.
È il piacere della riscoperta quello che ci ha fatto innamorare ieri a Seregno. È stato come tornare a giocare in cortile, dal colpo di tacco del 3-3 di Milani al 92', quando tutti noi avremmo tirato alle stelle di punta, ai rigori decisivi parati da Seitaj quando per alcuni era già da lapidare per il gol del 2-2 subito su pallonetto da fuori area, dai ragazzini del vivaio con tamburi e trombette che non se ne sono andati dagli spalti sul 3-2 per gli avversari al 90' come qualche "grande" al gusto di essere lì a soffrire per quei colori non solo perché sono quelli di Solbiate, noi per esempio non lo siamo, non perché li difende Scapinello - tiferemmo ugualmente per lui in qualunque categoria - e nemmeno perché il patron è Claudio Milanese, il direttore Gorrasi, il sindaco Battiston.
No, ieri siamo rimasti folgorati da un'idea. E cioè che, nel 2024, a 51 anni appena compiuti, possiamo ancora scegliere di ammirare e sostenere una squadra perché rappresenta quello in cui credi. Persone serie, appassionate, curiose, aperte e competenti. Un modo di stare in campo e seguire la tua strada con coraggio e audacia sia che tu lo faccia in Eccellenza, in D, in C o in B. Protagonisti magari piccoli d'altezza, ma grandi con l'afflato vincente, la testa e i piedi.
Il piacere del calcio. E di quelle due braccia levate al cielo che ci fanno tornare bambini.
Ecco la bellezza della Solbia.