«Sentire la sua voce nel giorno di Natale è l'unico regalo che voglio».
C'è un posto vuoto oggi a Varese impossibile da riempire accanto a tre persone speciali che hanno sempre vissuto come una cosa sola ogni piccolo attimo della vita e hanno saputo trasformare la malattia in speranza, anzi in un simbolo. Di coraggio e ripartenza, se non di sfida.
Per Simone, Catello e Maria, nella casa di via Como che presto potrebbero lasciare, sarà il primo Natale senza un fratello e un figlio che, per il suo modo di essere e di riempire ogni momento nei suoi 46 anni, rimane ovunque presente, non solo dentro di loro (Simone prova a vivere ogni momento come l'avrebbe vissuto lui, Catello e Maria anche questa mattina hanno lasciato al cimitero di Belforte il loro dono più grande: un pezzetto di cuore fatto di lumini azzurri e un palloncino che, prima o poi, scapperà in cielo nelle sue mani).
A Varese è il 25 dicembre più difficile da affrontare per chi con Luca Alfano e per Luca Alfano è arrivato fin qui, non ritrovandoselo più accanto. «Avrei fatto qualunque cosa perché potesse essere ancora con me, anche se lui non avrebbe accettato tecniche invasive per provare a salvarsi. Avrei voluto riportarmelo a casa come sempre anche quando il suo cuore ha smesso di battere, convinto che in qualche modo, anche stavolta, all'improvviso avrebbe riaperto gli occhi e avrebbe detto, come l'ultimo Natale: "Me la sono vista brutta, ma ce l'ho fatta di nuovo"» dice Simone a cui mancano quegli occhi grandi in cui s'agitavano le onde di un'anima in tempesta, quel filo di voce che sembrava sussurrare e, invece, tuonava («Mai chiesto aiuto per se stesso, al massimo ne chiedeva per chi era nella sua condizione»), quella sua causa di sofferenza - una malattia rara - trasformata in "causa" di vita.
A quel pensiero che si agita in chi lo vedeva come immortale (difficile non mollare, dopo che ha dovuto farlo perfino lui) la risposta la dà Simone: «Vivo i suoi luoghi» (e infatti ci ritroviamo al tavolino della Cucina di Altamura dove la famiglia Alfano era di casa, prima di trasferirsi dalle Bustecche), «cammino per le vie del centro» (perché lui aveva realizzato il sogno di vivere lì, dove la città e la vita sembravano ancora più grandi e belle, viste da una carrozzina), «faccio con mio padre le stesse cose che faceva lui», «ascolto i Giardini di marzo che cantavo con lui», «lo ritrovo nella sua cameretta, nelle pagine dei giornali ancora appese all'associazione artigiani dove lavorava, nel suo cagnolino Diego arrivato dopo Laki, nel ritratto che gli aveva fatto Luca Carrani (a volte devo dire a mia mamma di non continuare a baciarlo perché non si sbiadisca)».
«Vivo come se lui fosse in me» dice Simone che ora ha una missione da compiere. Questa: «Nel nome di Luca vorrei trovare il modo di aiutare gli ultimi, le persone che soffrono, chi ha perso un lavoro, una casa o una famiglia. Ma anche gli animali, spesso ultimi anche loro. Vorrei rimettere in piedi il suo spettacolo teatrale. Vorrei abbattere le barriere, come ha fatto lui. Lasciare qualcosa di cui non si può fare a meno, come i suoi insegnamenti».
Lo stai facendo, Simone. E non sei solo. Ma tu, Luca, continua a sorridere e a farci sentire il rumore delle ruote della tua carrozzina (della vita, del tuo retaggio) al nostro fianco. Anche se a noi quaggiù, solo per oggi di fronte alla tua voce e ai tuoi auguri, devi concedere almeno un'ultima lacrima.
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