Il 30 giugno era passato da un pezzo, ma non la voglia di Matt Brase di lasciare Varese: ieri, quest'ultima, è sgorgata in tutta la sua ineluttabilità.
È praticamente finita (salvo colpi di scena dell’ultima ora, ovvero un disperato tentativo ob torto collo da parte della società di piazzale Gramsci: ma con che faccia il coach tornerebbe indietro dopo tutto questo?) dopo solo un anno l’esperienza dell'americano nel basket italiano e nella Città Giardino. Ed è finita nel modo peggiore: con una fuga dalla porta di servizio, forzando quel contratto che ancora lo legava al club prealpino.
I fatti, poi i perché.
La possibilità di un addio di Brase era nell’aria da venerdì: diversi gli indizi che la facevano balenare. Il primo, straniante: invece di essere sulle tribune di Las Vegas, magari vicino a Luis Scola, anche lui da giorni presente in Nevada, a vagliare potenziali acquisti per la “sua” Openjobmetis, Brase era seduto sulla panchina dei Philadelphia 76ers al fianco degli altri componenti dello staff tecnico, impegnato a condurre la squadra nelle ultime partite della Summer League 2023.
Dice: le panchine NBA sono come porti di mare durante la lega estiva… Vero. Come è vero che Brase è stato “chiamato” per sostituire un assistente di coach Nick Nurse che si era ammalato. Ma perché proprio lui? E perché proprio lì?
Una risposta c’è: Brase avrebbe trovato un accordo con i Sixers, franchigia peraltro accostata al suo destino per tutto il mese di giugno, durante il quale l’ormai ex allenatore della Openjobmetis ha cercato con tutte le sue forze di accasarsi presso un “pino” della NBA.
La voce ha iniziato a spargersi e lo stesso Matt avrebbe permesso che accadesse: davanti a essa, e in virtù della presenza di Scola proprio a Las Vegas, la resa dei conti con Varese è diventata inevitabile. Ed è avvenuta nelle scorse ore, quando l’uomo di Tucson ha opposto un muro contro muro al ritorno sotto al Sacro Monte.
Ma può essere stata solo la legittima aspirazione di tornare a professare in patria, sogno mai nascosto e coltivato dopo un’ottima stagione in Europa da debuttante, ad aver spinto Matt Brase a lasciare la società che ha scommesso su di lui esattamente 365 giorni fa? Può essere stato solo un desiderio così grande da agire anche oltre l’escape fissata nel contratto sottoscritto, un moto così inarrestabile da voler portare a compimento anche davanti a possibili conseguenze legali?
Al 90% sì. Ma c’è anche dell’altro.
Ci sono il caso Tepic, la conseguente penalizzazione e i mancati playoff, fatti incomprensibili dalle conseguenze incomprensibili per Brase. C’è l’addio di Michael Arcieri, che ha privato Matt di una sponda anche culturale, non solo professionale, in un mondo per lui ancora straniero. C’è lo scatto di Paolo Galbiati verso Trento, in virtù del quale Brase si è trovato senza un collega che stimava, di cui si fidava, con cui aveva lavorato molto bene.
Quanto peso ha avuto realmente tutto ciò?
E poi c’è Markel Brown, che è sia causa che effetto e che a questo punto (se tutto quello a cui stiamo assistendo ha una logica) a Varese potrebbe non tornare nemmeno lui. La guardia tanto amata dai tifosi sta tergiversando da settimane sulla firma del rinnovo, nonostante una sostanziosissima offerta da parte di Pallacanestro Varese (pari, sembrerebbe, a quelle ricevute dalla Spagna e dalla Turchia). Sapeva del possibile addio di Brase? Certamente sì.
E c’è chi racconta anche di un rapporto con Luis Scola non più idilliaco come agli inizi e di silenzi assordanti nell’ultimo mese.
Corollari o meno, l'allenatore non c'è più. E non ha mai voluto davvero tornare a Varese...
E ora? Varese auspicabilmente farà valere i suoi diritti, facendo causa a Brase, che a tutti gli effetti ha rotto un contratto in essere, cercando di ottenere almeno un - legittimo, sacrosanto - risarcimento danni?
E poi: cosa farà Luis Scola davanti a una “grana” che complica maledettamente l’inizio di stagione biancorosso? Scandaglierà alla ricerca del nuovo allenatore ancora una volta il mercato americano oppure quello europeo/italiano?