Toto Bulgheroni, Meo Sacchetti, Carlo Recalcati, Sandro Galleani, Max Ferraiuolo, Giancarlo Ferrero, Guido Borghi, Charlie Caglieris, Pierluigi Marzorati, Miriam Garbosi, Giandomenico Ongaro, Sandro Gamba, Arthur Kenney, Dan Peterson, gli arbitri Paronelli e Tallone.
Sicuramente ne dimentichiamo qualcuno, ma giusto per dare l’idea diciamo che in Sala Campiotti, oggi pomeriggio, una persona ogni tre aveva vinto almeno uno scudetto, o almeno una coppa, o una medaglia… O comunque, di riffa o di raffa, fatto la storia del basket italiano.
Ci sono giorni in cui Varese si ricorda di essere la capitale. Normalmente succede quando c’è da celebrare uno dei suoi miti: in quei casi, l’olimpo della palla a spicchi sciama alla sue lande, se già non le abita. Martedì 12 aprile è proprio uno di quei giorni: il mito in questione si chiama Paolo Vittori.
En passant uno dei giocatori più forti di sempre.
Uno che “no gaveva premura”: così rispondeva a coach Vittorio Tracuzzi che cercava di farlo correre. Il sei volte campione d’Italia, due d’Europa e tre del mondo non era fatto per sudare senza scopi: «Ero pigro… Potevo giocare 50 ore di fila a basket o a calcio, ma correre e basta… non faceva per me». La battuta allora partiva tagliente, “non ho fretta”, il gruppo rideva, Tracuzzi incassava e Varese… dominava.
Sessant’anni dopo “No gavevo premura” è diventato un libro, un’autobiografia, edita da Sunrise Media. Completa, irriverente, piena di aneddoti, com’è nel personaggio che l’ha scritta (sollecitato dagli amici Giampietro Zamolo e Roberto Collini, tra le voci dell’indimenticabile “Tutto il basket minuto per minuto”).
Flash, chicche, brani di basket e di esistenza. Pezzi di una storia privata che diventa pubblica e quinti patrimonio comune, fondamenta di una passione che tutti ci accomuna.
In ordine sparso e senza esagerare, perché poi il piacere della lettura (e relativa scoperta) deve restare sacro.
Tutto inizia in una soffitta («-6 gradi di inverno,+42 d’estate, ma mi ha forgiato…») di Gorizia, dove gli americani rimasti in zona dopo la guerra diventano un esempio da seguire. Nell’estremo nord est, allora, spunta fuori un canestro dietro l’altro: Paolo si cimenta in tutti gli sport, finché un giorno - verso i 14 - sceglie la palla arancione.
Per lui è amore, per chi lo valuta meno. La topica di questi ultimi ha del clamoroso: «Nol cori e nol salta… tanto nol farà mai niente… » lo boccia il suo primo presidente. Uno con l’occhio lungo, non c’è che dire. Vittori si tatua la frase dentro e parte.
Salto a Milano, diversi anni dopo, la parentesi nell’alma mater Gorizia e quella nella mitica Moto Morini Bologna pure. Con l’Olimpia fan quattro scudetti. Un bel dì le Scarpette Rosse stanno giocando contro la Virtus Bologna e sono sotto di nove punti a pochi minuti dalla fine. Il principe del basket Cesare Rubini allora chiama minuto: «Andé in mona» è il contenuto, stringato anziché no, del timeout. Milano vince di 13.
Rubini, per inciso, è l’unico allenatore - insieme a Fontana della Moto Morini - che Paolone salva tra le righe. Per gli altri giù bastonate, pure a un certo Aza Nikolic: «Una persona che non mantiene la sua parola per me non esiste - dice l’autore raccontando un episodio già di fine carriera, quando a Varese avrebbe dovuto diventare vice allenatore - E poi il suo basket era noioso… ». Lo sostenesse qualunque comune mortale, verrebbero a prenderlo con la camicia di forza...
Paolone, invece, può. Tra un sorriso sornione e quell’accento che profuma di Carso che non se ne è mai andato, nemmeno dopo decenni qui sotto le Prealpi...
Dove, nella nostra rapida carrellata, siamo arrivati anche noi, perché i Borghi - papà "Cumenda" Giovanni e Guido - sono già riusciti a convincere Adolfo Bogoncelli a cedere il cartellino del tiro stilisticamente migliore della pallacanestro italiana. «Ci avevano rubato Vianello, dovevamo e volevamo prendere il più bravo» ricorda Guido. Vittori arriva, all’inizio non convince granché, passa anche dalla Ignis Sud (leggi Napoli), poi torna e vince tutto: 2 scudetti, due coppe dei Campioni, due coppe Italia e due intercontinentali. Una Coppa delle Coppe e un’altra Intercontinentale le aveva già vinte prima.
Abbiamo detto 2 scudetti? In realtà tre: «Con il caso Gennari hanno imbrogliato il papà di Toto - arringa ricordando il caso del tesseramento supposto irregolare dell’italo-americano Tony Gennari che tolse alla Ignis il tricolore del 1966, conquistato sul campo - Quel titolo è mio, l’ho vinto, lo voglio».