- 17 settembre 2021, 10:00

L'OPINIONE. Fondato da una donna, salvato da una donna. Il teatro chiede a Busto di continuare a "tessere" insieme

Viaggio nelle motivazioni e nelle sfide del Sociale "Delia Cajelli", gioiello e testimone in questi 130 anni: fu la fiera impresa tessile a volerlo, oggi le aziende (ma non solo) possono scrivere i prossimi capitoli dopo il periodo buio della pandemia

Il nuovo logo del Teatro Sociale "Delia Cajelli"

Non si è fermato se non in rare occasioni, al massimo ha abbassato il volume, riducendo ad esempio le attività durante la seconda guerra mondiale. È un gioiello, ma anche un testimone: della passione, della tenacia, della generosità di una città che oggi ne celebra i 130 anni con la lirica ritrovata (LEGGI QUI) . Fin dall’inizio, da quel 1891, il Teatro Sociale racconta cosa sia Busto.

La tela e il destino

Anzi dall’anno prima, quando nasce la Società anonima del teatro Sociale che – narrano le cronache – fu presieduta dall’ingegner Giuseppe Introini ma fortemente voluta dal cavalier Giovanni Candiani. Segno particolare di quest’ultimo – scomparso prima che potesse vedere realizzato il sogno -: era l’ideatore della “tela Olona”. Dentro di sé aveva un desiderio, poi dichiarato: fondare «un’opera che elevasse lo spirito e la cultura della città».  

Adesso si celebrano i 130 anni (il 26 settembre con la Traviata) per rinnovare il patto con la lirica e con Verdi, di cui fu portata in scena “La forza del destino”. E la forza del destino è quella che ha scolpito il percorso del Teatro Sociale, ma il destino alla bustocca: quello ostinatamente ricercato e voluto, anche contro gli ostacoli più pesanti. Ecco che oggi il teatro è dedicato a Delia Cajelli, colei che l’ha salvato in tempi apparentemente meno ardui per l’umanità, ma non per la cultura. Una donna, come quella che realizzò il sogno dell’imprenditore scomparso, la contessa Carolina Candiani Durini, con il marito e altre personalità cittadine. Fu incaricato l’ingegnere e architetto milanese Achille Sfondrini, già progettista o restauratore di dozzina di teatri italiani del secondo Ottocento, che gli diede la sua impronta neoclassica. Alcuni ritocchi, poi i primi interventi più incisivi, a partire dal 1935 con Antonio Ferrario ed Ignazio Gardella.

Scolpire un'identità 

Ma dentro le mura c’è un’identità che viene scolpita. L’arte e la cultura protagonisti, sì, però senza trascurare altri lati della vita cittadina. Si cita, nel 1908, l’incontro con il milanese Celestino Usuelli, primo trasvolatore delle Alpi con il pallone aerostatico Regina Margherita”. Entra il pugilato, con il campione Bruno Bisterzo, forza d’acciaio e cuore d’oro.

Tutto questo è il Teatro Sociale, anche quando il cinema si ritaglia uno spazio consistente. Deve arrivare un’altra donna, a ridare vita alla vocazione del teatro: Delia Cajelli. Con gli Atecnici, si va in scena e si forma. Come si mette mano ancora alla sala, varcata la soglia del nuovo millennio, con l’architetto bustese Daniele Geltrudi. Nel luglio 2014 le quote societarie passano  alla Fondazione comunitaria del Varesotto. Delia scompare l’anno successivo, non dal suo teatro.

La stessa motivazione

Perché resta quella forza del destino, che si celebra visivamente anche riattivando la buca degli orchestrali, un gesto fisico e simbolico. Può essere replicato da tutti i bustocchi, a  maggior ragione da chi fa impresa - com'è stato ricordato anche in conferenza stampa (LEGGI QUI)- e oggi può sentire ugualmente forte dentro di sé quel richiamo di un imprenditore tessile dell'Ottocento.

Dopo tanto soffrire, dopo tante certezze sbriciolate dal virus, dopo tanto vuoto, è tempo di accorgersi dei mutamenti silenziosi del teatro - tra il nostro correre distratto - e del suo ritrovare voce. Si può essere spettatori e insieme protagonisti dei prossimi 130 anni di questo gioiello, ciascuno a modo proprio.

La motivazione non è cambiata, resta quella scritta dai nostri avi due secoli fa: elevare lo spirito e la cultura della città. Ce n'è bisogno ogni giorno.

Marilena Lualdi