Dieci anni di Consorzio, sette allenatori. Ecco l’epopea minima di ognuno, raccontata con tanti fatti, un po’ di senno di poi e un pizzico di ironia. E' la terza puntata con cui ci avviciniamo al 10° compleanno di "Varese nel cuore", che festeggeremo mercoledì (leggi QUI e QUI la prima e la seconda puntata).
CARLO RECALCATI (2010-2012)
Il Charlie nazionale e Pallacanestro Varese: una storia d’amore che è andata, va e andrà oltre gli anni di effettiva militanza di Recalcati sulla panchina di Masnago. La Stella del 1999 lo ha reso “immortale” nel cuore dei tifosi prealpini, costruendo un cordone ombelicale che si è scoperto irrecidibile a ogni ricordo snocciolato e a ogni passaggio in città (anche da avversario): succede, quando ciò che hai conquistato sul campo e le emozioni che hai regalato risultano uniche e - a conti fatti - irripetibili…
Non è quindi una sorpresa trovarlo a guidare le compagini che inaugurano l’era consortile: il suo ritorno, nel 2010, è un ritorno a casa. Quello del terzo millennio è un Recalcati che ha vinto tanto e ne ha viste tante, ma conserva le caratteristiche che lo hanno reso speciale, ancor più come uomo che come allenatore: empatia, saggezza, capacità di affrontare le situazioni con calma, rispetto e lucidità. Gli servono tutte nella sua seconda vita varesina: la sua prima Cimberio è un “porto di mare” (poi sboccia), la seconda è più quadrata ma inizialmente anche modesta. Sul parquet fanno entrambe tremendamente il loro dovere, raggiungendo risultati (doppia qualificazione consecutiva ai playoff) che col senno di poi sono quanto di meno banale potesse essere conquistato.
Nell’estate 2012 Charlie riprende la strada: strapperà ancora sorrisi, prima a Montegranaro, poi a Venezia. Ma non è un divorzio, con lui non può esserlo. Lo dimostra il fatto che, qualche anno dopo, il suo nome verrà speso per la presidenza in piazza Monte Grappa: non se ne fa nulla, ma il coach sarebbe venuto di corsa…
FRANCESCO VITUCCI (2012-2013)
A proposito di amori… Ce ne sono di diverso tipo: quello che vi stiamo per raccontare è stato il classico amore improvviso, focoso, passionale, travolgente, ma - a conti fatti - impossibile da far durare.
La vita è strana e bellissima, a volte: ti porta nel posto giusto, al momento giusto, con le condizioni giuste e poi ti dice “goditela al massimo, perché durerà poco…”. Questo accade a Varese e a Vitucci nell’estate del 2012: la società sposa un allenatore dalla gavetta importante, ma senza acuti nella massima serie, nella quale si è misurato soprattutto da vice; Vitucci, a sua volta, sposa una realtà che da tempo non appartiene ad alcuna élite di alta classifica, venendo investito dell’unico, sensato compito di traghettarla nella lotta per conquistare un posto nei playoff. Niente di più.
Ciò che succede dopo, ha dell’incredibile, anzi… dell’Indimenticabile.
In mano il Frank del sestiere Cannaregio si trova una fuoriserie, anche se costa sensibilmente meno di altre, più quotate avversarie. Lui ci mette soprattutto due jolly: sceglie bene, insieme a Vescovi e Giofré, i giocatori adatti a una pallacanestro libera, veloce e spontanea, e si pone come “players coach”, cioè come gestore, più che come costruttore, cedendo le chiavi del comando a un play accentratore come Mike Green, lasciandolo libero di creare con poche linee guida. Tale caratteristica incontra forse dei limiti nei pochi momenti in cui gli endecasillabi cestistici declamati da Banks e company restano in gola. Praticamente due volte, sempre contro Siena: nella finale di coppa Italia e in gara 7 di semifinale playoff, pur con l’enorme giustificazione - in questo secondo caso - dell’assenza di Dunston.
Eletto “Papa” da una tifoseria incredula per tanta abbondanza di risultati, a fine stagione prende la strada di Avellino. Correggiamola davvero, una volta per tutte, la storiografia ufficiale: il suo addio non è stato né così improvviso, né basato unicamente sui soldi: non sparuti episodi, mentre la Cimberio sul campo macinava vittorie, sono andati a poco a poco a minare quell’amore di cui sopra, insieme ad aspettative gonfiate cui Frank ben sapeva di non poter rispondere in futuro. Gli Indimenticabili avrebbero ballato solo per una stagione: una volta appurato, non è stato così ingiustificabile dirsi ciao.
FABRIZIO FRATES (2013-2014)
Mettiamola con ironia: un altro milanese-canturino (nel senso di nato a Milano e assurto a fama cestistica a Cantù: il nostro in questione vinse in Brianza una Korac all’inizio dei ’90) che trova gloria a Varese, dopo Recalcati, non poteva starci: sarebbe stato troppo…
Se invece vogliamo tornare alla metafora dell’amore, beh… scriviamo che quello tra l’Architetto e Pallacanestro Varese non ha avuto nessuna chance né di scoppiare, né di durare. E i motivi sono diversi: compito troppo ingrato la successione a Vitucci e al suo anno indimenticabile 2012/2013, troppo complicata da gestire la transizione in un ambiente che si sarebbe dovuto necessariamente riscoprire “finito” dopo 365 giorni passati a seguire l’infinito, troppo basso l’appeal del personaggio Frates, tipo ruvido, tosto, poco propenso a lisciare il pelo altrui nelle pubbliche relazioni. Un bene, se arrivano i risultati. Un’aggravante, quando non arrivano.
Poi l’allenatore può non piacere, ma non è l’ultimo dei pivelli, anzi: lo dimostrano nel curriculum, al di là delle singole annate ben condotte in A e in A2, gli anni di militanza come vice dello stesso Recalcati sulla panchina della nazionale. Anni di vittorie, anni di medaglie (Europei 2003 e Olimpiadi 2004). Forse a cambiare il corso della storia all’ombra delle Prealpi sarebbe bastato un mercato diverso, meno condizionato dai 300 mila euro sacrificati per il secondo anno di contratto di Ere, con qualche conferma in più o errore in meno (il play non play Kiki Clark e il negletto Coleman)… Ma Frates, confermandosi più ispido della barba di Rasputin, ci ha messo del suo, non ponendosi minimamente in discussione davanti a un ruolino da 8 vittorie in 20 partite di campionato, un’umiliazione in Supercoppa, un’altra in Eurolega e tante sberle in Eurocup (6 su 8 gare). «Non potevamo fare di più…». Ah, davvero? Ciao.
STEFANO BIZZOZI (2014)
Ci sono secondi, a volte, che non hanno nulla da invidiare ai primi. Coach Stefano Bizzozi è uno di questi. È “l’ombra”, il vice, che ogni allenatore vorrebbe avere, per le sue conoscenze della materia (che profumano di basket di base, quello insegnato come un maestro, e di infinita ricerca) e per le sue qualità umane: mai un gesto sopra le righe, rispetto dell’altrui persona, empatia, cultura. Cultura di uomo che ha viaggiato e ha usato la pallacanestro per andare oltre, scoprendo e aiutando (ci sarebbe da scrivere un libro delle sue esperienze in Africa. Ci torneremo…).
Bello, per tali ragioni, trovarlo allora in questo elenco, chiamato a prendere il timone dopo un anno trascorso al fianco di Vitucci e l’esonero di Frates a febbraio 2014, con il cimento di traghettare una tribolata stagione a una placida conclusione. Missione compiuta (5 vittorie su 10 partite), senza strappi. E bello, per gli stessi motivi, trovarlo oggi ancora in biancorosso, ad allevare giovani cestisti ma soprattutto giovani uomini.
GIANMARCO POZZECCO (2014-2015)
E qui, come si fa a non tornare all’amore? Quanti disastri sa commettere il cuore… Ti fa sperare l’impossibile, vedere ciò che non esiste, litigare e passare dall’idillio alla distruzione. Il tutto, solo perché ama.
Gianmarco Pozzecco ama Varese. E Varese ama Gianmarco Pozzecco. L’equazione valeva l’altro ieri, vale oggi nonostante tutto ed è valsa quando si è tentata la scommessa della primavera 2014. Sacrosanto provarla: niente e nessuno poteva cercare di risvegliare la dormiente prealpina, già tornata imbronciata e brontolona (as usual…) sul suo giaciglio dopo l’anno post-Indimenticabili, come il Poz. E botteghino e merchandising sono ancora lì a ricordarlo: la sveglia ci fu.
Il parquet, però, ha raccontato la storia alla sua maniera, la storia che si fa con i fatti. E i fatti sono che il Gianmarco Pozzecco del 2014 era un allenatore tecnicamente e umanamente immaturo, che il Gianmarco Pozzecco del 2014 ha smarrito - strada facendo - l’appoggio di Cecco Vescovi, colui che lo aveva chiamato con una grande intuizione ma che, con lui, non condivide né l’yin, né lo yang dell’esistenza, figurarsi del basket. I fatti sono che Gianmarco Pozzecco è stato travolto da troppo affetto, troppe aspettative, troppa tensione, troppa forma (autorizzandolo a far eruttare la sua, quella di un adorabile, inimitabile pazzo…) a discapito della sostanza. Il bicchiere non poteva non tracimare…
Sbaglia, tuttavia, a nostro giudizio, chi continua a stigmatizzarlo come allenatore (e come uomo): tornasse oggi, non farebbe tutto il casino che ha combinato sei anni fa. Anzi, magari farebbe anche bene: possiede la scienza e l’ha - finalmente - ammantata di esperienza (ripartendo, umilmente, dal basso); ha delle intuizioni tecniche non comuni (il doppio lungo, vero, a Sassari, è stata una goduria); sa come gestire i giocatori, a patto che non siano americani allo sbaraglio tipo Ed Daniel, ma atleti (e uomini) fatti e finiti che non si approfittano delle sue aperture.
Scritto ciò, in realtà, il consiglio è di tenersi lontano da Masnago ancora per un bel po’, forse per sempre. Più per il suo bene, che per quello di Pallacanestro Varese.
PAOLO MORETTI (2015-2016)
“…È una storia da dimenticare. È una storia da non raccontare. È una storia un po' complicata. È una storia sbagliata. Cominciò con la luna sul posto. E finì con un fiume di inchiostro. È una storia un poco scontata. È una storia sbagliata…”. (Fabrizio De André)
La storia ci impone di non essere teneri con Paolo Moretti. Più per come è continuata quando era già, in realtà, finita, che per come è andata. Quanti allenatori vengono esonerati, passano da idoli a colpevoli, da eroi a macchie da cancellare? Tanti. E colui che venne cacciato dal retro-bottega qualche giorno prima del Natale 2016, a sintesi di un cammino stagionale da sei vittorie su sedici partite (senza contare l’incerto precampionato), non è stato il primo e non sarà l’ultimo. Mestiere infame quello del coach: contano solo i risultati. E, per giunta, quelli del presente: il passato, anche recente, si dimentica con un colpo di spugna.
La causa da lui intentata alla società colpevole di aver versato con qualche giorno di ritardo la buonuscita sul contratto, nella pretesa di ricevere l’intero compenso di un anno in cui non avrebbe allenato, temeraria a parere del suo stesso procuratore (cambiato in corso d’opera) e di diversi avvocati e persa in ogni grado di giudizio, non può invece passare come normale. Varese ha rischiato di pagare carissima la questione, ma ne é uscita pulita. Lui, al contrario, si è scavato una fossa in cui sta ancora annaspando.
Il Moretti del parquet ha più perso che vinto. Ha conquistato Chalon, bravo ma anche fortunato, lasciando lì però la coppa con delle scelte sciagurate in finale. È stato co-protagonista di una gestione quantomeno incerta nel suo primo anno, con ben nove giocatori ad attraversare le porte girevoli del mercato in mezzo alla stagione, e non ha mai trovato il feeling con Bruno Arrigoni. E poi si è arroccato sulla difensiva nella sua (mezza) seconda annata, non tentando nulla di davvero risolutivo mentre la matassa gli sfuggiva dalle mani.
Insomma, anche qui, poca roba. Una storia sbagliata.
ATTILIO CAJA (2015 e 2016-oggi)
L’Artiglio è il presente (e continuiamo a ritenerla una gran bella notizia per la Pallacanestro Varese). È allora forse ancora prematuro tracciare un bilancio compiuto della sua esperienza da queste parti, o quantomeno è più difficile rispetto ai predecessori analizzati sopra.
I fatti, però, cari a lui che li pretende da atleti e staff ogni giorno, e cari a noi in questi commenti, sono già parecchi. E vanno tutti nel senso di considerarlo un allenatore cui il settantacinquennale sodalizio cestistico cittadino deve davvero tanto.
124 partite, 71 vittorie (la percentuale di successi è del 57%): solo Frank Vitucci (su un terzo delle partite però: 42) ha fatto meglio (71%). Due salvezze portate in cascina senza colpo ferire, la prima (post Poz) forse non così complessa, la seconda (post Moretti) in un contesto decisamente più complicata. L’impresa sportiva della seconda parte del 2018, quando si è risollevato dall’ultimo al sesto posto nello spazio di un girone, sconfiggendo con la sua Openjobmetis ogni avversario che si parasse sulla sua strada, Milano e Venezia comprese: quanti occhi abbiamo visto tornare a brillare in quel periodo.
L’organizzazione e il pragmatismo forniti a ogni versione di Varese passata sotto le sue grinfie: con lui non c’è stata una domenica, una sola, senza lotta o mancante di dignità. Si è vinto e si è perso, ma senza mai rovesciarsi (peggior risultato in quattro anni un -23, dopo anni di scoppole trentellanti tutt’altro che rare…) o vergognarsi di chi è sceso sul parquet. La moltiplicazione dei talenti a beneficio di diversi giocatori, da Avramovic a Cain, da Okoye a Vene, diventati più ricchi (tecnicamente e nel portafoglio) sotto la sua cura. L’abnegazione per la causa, fatta di totalizzante sacrificio e umiltà (anche contrattuale, sia all’inizio, sia quando c’è stato bisogno).
Fatti.
Poi nessuno è perfetto: l’Artiglio sa essere più spigoloso di una credenza, non te le manda a dire e lavorare con lui non è una passeggiata, visto che pretende tantissimo. Ma spesso, anche qui, si è guardato solo quello che si voleva guardare: in fondo, se fai come dice lui, non ti “tocca” nemmeno con una rosa. Ed è lui che comanda.
La prossima stagione, sempre restando rasenti all’assioma del “conta solo il presente e contano solo i risultati”, sarà importante: per una volta si troverà a guidare una squadra meno operaia, più italiana e molto eterogenea, tra giocatori affermati e scommesse. Vedremo se rimpinguerà la pila già altissima dei fatti, riuscendo, ancora una volta, a zittire chi gli preferirebbe qualche altro allenatore (ma chi? E perché? E con quali soldi?).
Ah, dimenticavamo: anche lui ha fatto causa a Varese, nel 2015, dopo essere stato ignominiosamente preso per i fondelli dal presidente Coppa. Solo che lui l’ha vinta…
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