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Busto Arsizio | 28 dicembre 2019, 09:44

VIDEO e FOTO. Ecco la vera festa: una minestra e delle scarpe donate ai senzatetto dalla Croce Rossa

Marilena Lualdi ha vissuto una notte insieme ai volontari della Cri, la vera famiglia dei clochard che passano la notte fuori dalla stazione centrale di Busto. Tra loro tanti italiani e una grande dignità

VIDEO e FOTO. Ecco la vera festa: una minestra e delle scarpe donate ai senzatetto dalla Croce Rossa

Ci vuole un attimo. Ad avere una stazione, un aeroporto, il cielo come unico tetto. Ci vuole un attimo. A ricevere un pasto caldo, una giacca, da mani premurose e lasciarsi sfiorare da un sorriso.

Dopo una serata con l’Unità di strada della Croce Rossa, a Busto Arsizio, questa frase mi rincorre. Assieme a un’immagine: quella delle scarpe, un tesoro che tanti cercano nei rifugi di fortuna e che è facile dare per scontato. Anche in un mondo dove basta un attimo, per cambiare vita: in un senso o nell’altro.

Stasera racconto così, abbandonando per un istante le regole giornalistiche che mi suonano talmente vuote con la loro distanza fallace, la loro prima persona messa in fuga come se fossimo davvero capaci di giudicare alla perfezione.  Vi parlo per una manciata di quegli attimi in prima persona, che cavolata, ma non si può fare altrimenti quando avviene un incontro. E tanti altri.

Torno a molti mesi prima, quando per VareseNoi sto facendo un’intervista in Comune al sindaco Emanuele Antonelli. Ad un certo punto, vengono fatte entrare delle persone, dal sorriso umile e contagioso. Uno di loro è Luigi Lomazzi, con la sua divisa della Cri, delegato dell’area sociale, che si sottrae a fotografie o interviste. Ma non può, a un invito che si trasforma in una promessa: vieni una sera con noi alla stazione.

Trascorrono tanti, troppi mesi. Aspetto poi l’inverno che non viene: perché mica farà freddo adesso. No che non lo fa, se fuori stiamo mezz’oretta o giù di lì, se trascorriamo pochi minuti tra ufficio, auto e casa o facciamo una passeggiata per lo shopping, prima di rintanarci nella nostra dimora super riscaldata in barba alle promesse di maniera a Greta.

Stasera, io che mi lamentavo che sbocciano ancora i fiori, il freddo e il suo fiato lo conoscerò, almeno di sfuggita. Lo comincerò ad assaggiare in questa sera di dicembre, tra la sala d’attesa della stazione, la banchina e la piazza dei mezzi.

Ma prima che ciò avvenga, arrivo nella sede di via Castelfidardo verso le otto, dove si stanno preparando i panini, oltre a una solenne minestra. Stasera andrà giù che è una delizia, però – mi raccontano – anche in estate va a ruba. Magari la si lascia raffreddare un pochino con la bella stagione, in ogni caso un brodo è una rarità, qualcosa che fa bene e che significa avere una casa, un fornello, qualcuno che si prende cura di te o che con te può condividere questo bene.

Mentre si mette da parte ciò che serve, si conversa, si ride, si scherza. Come una squadra, come una famiglia che ha imparato a stare insieme, con discorsi e silenzi, battute e risposte ponderate. Questo venerdì 27 dicembre, con le feste ancora in fermento, si fa tutto qui. Di solito una volta la settimana si è accanto alla Caritas di Olgiate Olona e i pasti durante il periodo invernale sono preparati dagli alpini.

Mescolare la minestra sul fuoco appare un gesto semplice e solenne al contempo. Lo compie anche una giovane che fin da ragazzina faceva inseguire le ambulanze da mamma, perché lei coltivava quel sogno: guidarne una.

Si parte, alla volta della Stazione centrale di Busto Arsizio. Un’ambulanza carica di tutto ciò che può alleviare la vita all’aperto dei poveri, di chi non ha più molto (niente, no,  lo gridano o sussurrano i loro volti), e un furgone con i volontari. In tutto sono tredici. E l’altro numero da aggiungere è trenta: tanti sono i clochard che formano una fila spontanea e rispettosa davanti al contenitore della minestra. Tranne qualcuno, che sta in disparte, forse perché non osa, non ancora.

Loro stavano aspettando, questi volontari, questi amici, che solitamente due volte la settimana arrivano con il loro carico di speranza. Cibo, abiti, coperte e ancora di più: guardano dentro i cuori, le vite, senza giudicare. Solo per dare risposte, anche alle domande che si osano appena sussurrare.

Ci vuole un attimo…

Siccome questo è il dubbio ricorrente, per non dire ossessivo: italiani? Sì, per la maggior parte. Gli stranieri sono pochi, e fai fatica ad accorgertene. Consumato il cibo (un ragazzo africano si ostina a ripetere che basta il tè, fino a cedere, dolcemente, a un panino), molti dei senzatetto si dirigono fuori, verso il pulmino con Luigi e un’altra volontaria che ascoltano e vedono se possono dare ciò che migliorerebbe queste condizioni.

Hai una coperta?
Vorrei un maglione.
E quasi arrossendo nella notte: delle mutande?
Va bene, grazie.
Fa niente…

Con garbo e attenzione, si ascolta e si cerca di esaudire i desideri. Se non è possibile, la regola è mai promettere per il futuro: senz’altro impegnarsi per trovare una soluzione, questo sì.

Siamo tra persone, che si guardano negli occhi, che si conoscono, che si fidano. Luigi viene chiamato spesso, dai clochard come dai volontari: è un riferimento da tanti anni. Almeno undici. In questo periodo sette persone che andavano incontro ogni sera, con le loro piccole richieste, sono morte. Quattro, cinque «sono sempre le stesse». Le altre cambiano: cornice, raramente vita.

Non dormono alla stazione, no. Qui vengono in cerca del sollievo, di un piatto caldo, di uno sguardo amico.  Alla stazione, sulla banchina verso gli uffici e le sale d’attesa, le panchine sono sparite con gli ultimi lavori. Quelle interne, sono inframezzate di sbarre, così ci si può sedere, non certo sdraiare.

Il decoro è salvo…

Così queste vite la notte si spostano. Verso i dormitori, chi vuole e può.  Verso Malpensa, che offre un rifugio caldo e temporaneo. Verso altri luoghi, che non conosciamo.

Stasera vedo passare giovani e anziani, soprattutto i primi. Diverse donne, una signora in carrozzina per cui è tutto ancora più complicato ovviamente.
Ecco, di signori ne scorgo tanti. Perché c’è una dignità che batte forte in ogni vita. C’è un uomo, dai capelli grigi, ai quali nessuno – neanche un passante distratto - si sognerebbe di dare un vestito sgangherato, perché ha un’eleganza tutta sua, da rispettare: è nei suoi modi.

Poi arriva quella richiesta, che si ripete come un mantra doloroso.

Avete le scarpe…?

Le scarpe sono il tesoro più raro. Quello di cui si ha disperatamente bisogno, perché si consumano subito. Prima di giudicare in fretta e furia, propongo un esercizio che ho provato e mi ha ferito già solo a immaginarlo.

Pensate a una delle prime cose che vi fanno sentire rilassati e a casa: togliervi le scarpe. Arriviamo nella nostra abitazione, ce le leviamo, ci infiliamo comode ciabatte, magari ci sediamo, riceviamo o diamo una carezza, ascoltiamo quei resoconti calorosi di famiglia che attenuano le preoccupazioni.

Ora, immaginiamo di non potercele togliere mai o quasi. Di sentire quella stretta ai nostri piedi, fisica e metaforica, di non poter mai essere liberi, di percepire piano piano come quella protezione si tramuti in una gabbia all’improvviso.

Mai liberi, mai a casa.

Le scarpe proteggono, feriscono, si deformano nelle giornate di pioggia, imprigionano, si rovinano. 

Senza scarpe: io legavo questa immagine ai film di guerra, un tempo. Ma questo non è un film, né siamo in guerra. Sui mezzi della Croce Rossa, questa è la ricerca più dolorosa: perché occorre avere la taglia giusta, a maggior ragione considerando appunto cosa significhi convivere sempre con quelle calzature. E non sempre è a disposizione: l’ombra di delusione, si percepisce anche nella notte.

Io questa sera torno con quest’idea: che nessuno di noi sia libero, se qualcun altro è senza scarpe decenti nella Busto Arsizio che suona così ansiosa di tenersi stretta la patente di quinta città della regione come numero di abitanti.

Io di Busto sono fiera. Di questi volontari e delle persone che li aiutano ad aiutare, con una costanza preziosa e sempre più necessaria: questa è la Busto di cui vorrei essere degna, invano. I poveri alla stazione centrale, sanno di poter contare su di loro. Li aspettano e se c’è una variazione di orario, bisogna avvisarli prontamente.
Bisogna ascoltarli, se hanno necessità. Bisogna anche sgamarli, se un maglione l’hanno appena chiesto. Non per severità eccessiva, ma per aiutare tutti veramente

Bisogna essere cortesi, ma fermi.

Torno a casa – e già questa è una benedizione – con una spiegazione anche per il bustocco, o l’italiano, fremente di sapere se davvero non siano «tutti stranieri».
No, come si diceva prima, e talvolta c’è anche una ragione che non piacerà: gli stranieri, spesso si aiutano con una rete più efficace

Alcuni di questi ragazzi sì, vengono da lontano. La loro esperienza in Italia non ha realizzato il sogno che cullavano e le famiglie avevano affidato loro. Tornare, costa parecchio e poi si rischia di passare per falliti. Meglio soffrire qui, occorre certo attrezzarsi. Capire l’ambiente attorno, cogliere i volti di coloro che non fanno parte di questa grande famiglia di povertà invisibili, ma si  insinuano pochi minuti da queste parti solo per compiere azioni cattive.  Un ragazzo annuisce, quando due malfattori di passaggio colpiscono e fuggono.

Io li ho inquadrati, bisogna inquadrarli se vuoi sopravvivere.

Inquadrarli. Il paradosso doloroso è questo: loro, gli invisibili di Busto Arsizio, devono imparare a vedere più di tutti.

Straniero è un ragazzo, che sembra incollato per timidezza alla porta a vetri: la distanza tra lui e l’ambulanza con i beni radunati per aiutarli, insormontabile in apparenza. Alla fine, ce la farà e chiederà un maglione, dirà sì al primo che gli offri, gli occhi che questa volta brillano nel buio.

Pochi clochard, da altri Paesi. Molti, italiani. Tutti con la provenienza unica che conta anche se non si stampa sul passaporto: umanità.
Perché basta un attimo e la tua vita cambia. Ma questa sera ho visto che basta un attimo e porti una luce nell’esistenza di queste persone.

E mi addormenterò, se riesco, con un sogno: che il furgone sia sempre traboccante di scarpe, di ogni taglia. Che questa Busto, così operosa e un po’ meno ricca di un tempo, non lasci che qualcuno debba andare via senza che ci sia un paio di scarpe giuste per lui. Non da ricco: da uomo o donna, la cui dignità non può essere calpestata da nessuno.

 

Marilena Lualdi

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